L'Amletico

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È stata la mano di Dio. L'attesa della voce di Paolo Sorrentino

Il poeta, sin dai tempi antichi, si sa, è in attesa di una voce. Una voce divina, che arriva tramite l'intercessione di una o più muse. Paolo Sorrentino, nel suo film più intimo e personale, ispirandosi alla sua adolescenza segnata dalla morte dei genitori, crea il suo alter ego giovanile, Fabietto Schisa (Filippo Scotti). E Fabietto, a più riprese, in risposta alla madre o ai parenti a tavola, farfuglia i versi dei poeti italiani imparati a memoria al liceo classico; non sono creazioni sue, non sono versi suoi, poiché Fabietto è in attesa di una propria voce, e di capire cosa diventare da grande.

Una musa, però, Fabietto la trova, incarnata nella formosa e seducente zia Patrizia (Luisa Ranieri). La zia non viene capita da nessuno tranne che da lui, e viene internata in un ospedale psichiatrio, come a voler significare che l'ispirazione è una sorta di follia, o comunque una differente visione della vita, una visione non omologata al pensiero di massa.

Ed è proprio la zia Patrizia, appunto, a inventare la storia iniziale di San Gennaro e del monaciello, il monaco bambino incappucciato che realizza i desideri, legato al folclore napoletano. Solo Fabietto le crede, perché dà importanza alla potenza del raccontare storie; non per evasione, ma per dare senso a una realtà che, così com'è, "è scadente". Il monaciello, in tal senso, rappresenta il fantastico che si insinua nel quotidiano, e che dalla banchina della ferrovia si toglie il cappuccio mostrando una testata di capelli ricci – proprio come quelli di Fabietto – e che, sorridendo, lo saluta.

Zia Patrizia tra san Gennaro e il ‘monaciello’

È un segno di buon auspicio, se consideriamo, nella vita vera, l'affermazione di Sorrentino come regista; ma il bambino potrebbe anche essere una rappresentazione di Fabietto da piccolo, della sua infanzia che lo saluta e che lui, prossimo a diventare grande, si lascia alle spalle assieme a Napoli. La scena in questione presenta anche un'analogia col finale de I vitelloni di Federico Fellini (1953), dove Moraldo prende il treno da solo per lasciare Rimini (la città natale di Fellini), e a salutarlo ci sarà solo un bambino di nome Guido che lavora come fattorino; nelle ultime batutte del film, Moraldo viene doppiato dallo stesso Fellini che, con quel suo "Addio Guido", rivolto al bambino, non lascia dubbi sulla sua personale scelta di andare a Roma in cerca di fortuna.



 

A sinistra: Fabietto saluta il monaciello A detsra: I vitelloni – Federico Fellini (1953)

La voce, quindi, di Fellini; il regista che forse ha maggiormente ispirato Sorrentino. E Fellini è presente anche in "È stata la mano di Dio"; o, meglio, è presente solo la sua voce, appunto, nella scena in cui Fabietto si affaccia nel camerino dove si stanno svolgendo dei provini per delle comparse cinematografiche, e dove intravede un pavimento in cui stanno gettate alla rinfusa tutta una serie di fotografie di donne avvenenti, che vengono smistate sotto la guida di Fellini (che non si vede mai), un po' come faceva Mastroianni - attore feticcio di Fellini - in 8 e mezzo.

 

 

A sinistra: le fotografie delle donne in È stata la mano di Dio A destra: 8 e mezzo – Federico Fellini (1963)

Se Fellini ha già una voce, Fabietto, invece, deve prima elaborare il lutto, fare delle scelte, guardare al futuro. Al momento è sospeso, così come l'attore appeso a testa in giù sul set cinematografico di Antonio Capuano (il regista napoletano con cui Sorrentino esordì per davvero come sceneggiatore, nel 1998); l'attore a testa in giù ha il volto sfocato, ma ha la stessa chioma riccia di Fabietto/Sorrentino, come un doppelganger. In questo caso, Sorrentino potrebbe essersi ispirato all'archetipo de L'appeso dei tarocchi, la carta che simboleggia una situazione sfavorevole da dover sopportare, in attesa di agire al momento opportuno per il raggiungimento dei propri obiettivi.

 

L'attore a testa in giù e L'appeso dei tarocchi


Sarà zia Patrizia, la sua musa, a donare simbolicamente la voce a Fabietto, lanciandogli giù dalla finestra della clinica psichiatrica delle batterie - forse le stesse che aveva sottratto al nuovo fidanzato della cugina, impedendogli di parlare con la vocina robotica - e che lei aveva gettato nele profondità del mare; lo stesso mare in cui si tuffa l’attore che interpeta il suo futuro mentore, il regista Capuano, e che gridando, prima di allontanarsi a nuoto, lo incalza: "A tiene o no n’a cos’a raccuntà?

In questo senso, il diaologo con la zia, che forse nemmeno avviene ma che si svolge nella testa di Fabietto, è embematico per capire la sua scelta:

 

Zia Patrizia: "Che vuoi fare da grande Fabié?".

Fabietto: "Mi vergogno a dirlo Zì. Tanto non succederà mai. È un'idea pazza".

Zia Patrizia: "E se è pazza stai parlando con la persona giusta".

Fabietto: "Il regista di film. Questo vorrei fare.”

Zia Patrizia: “Che bella idea Fabié. Se ci riesci mi vieni a chiamare? Così… sarò la tua musa.”

Fabietto: "Tu sei già la mia musa."

 

Ciro Capano (Antonio Capuano); Toni Servillo (padre di Fabietto); Luisa Ranieri (zia Patrizia)

Sorrentino, anche nell'autobiografismo, dà continuità al suo percorso conoscitivo di regista, e cioè il tentare, tramite la fantasia, di scrutare l'indicibile, ciò che non può essere visto, per supplire a una mancanza, a un vuoto, che è quello di Fabietto, a cui viene negata la possibilità di vedere i corpi dei suoi genitori defunti, così come a noi spettatori. La voce dell'ispirazione parte proprio da lì, dalle sue radici; perché, come diceva la suora ne La grande Bellezza, "le radici sono importanti". E allora ecco che mentre Fabietto è in partenza, al posto del fischio del treno sentiamo quelli dei genitori, i fischiettii con cui sancivano la loro complicità e che, come un richiamo, fanno percepire il loro essere sempre presenti, lì assieme a lui, e che non lo hanno abbandonato, e lo fanno voltare verso il monaciello, mostrandoglielo come un'entità vera, non fantasiosa; a simboleggiare la potenza dell'immaginazione di tutta una cultura, quella partenopea, che vive sognando, e che mischia il sacro e il profano, la cristianità con la devozione calcistica. Sì, perché se Fabietto/Sorrentino non è morto coi genitori, è perché l'ha salvato Maradona, avendo preferito andare a vedere il Napoli che stare nella casa in montagna coi suoi; e quindi, come sentenzia lo zio, come in preda a un fervore mistico: "È stata la mano di Dio!".

È davvero così? Non ha importanza. L'importante è il raccontare una storia, e il volerci credere, in quella storia, per tentare di dare un senso al dolore, e a ciò che chiamiamo realtà.