L'Amletico

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W. Kentridge, Triumphs and Laments

*Questa è la nostalgia: vivere nella piena / e non avere patria dentro al tempo

Un enorme foglio di papiro srotolato che parla per simboli, archetipi, immagini. Più di 2000 anni, raccolti in 500 metri di pietra, ci rincorrono lungo i muraglioni del Tevere, ricordandoci, secoli dopo gli eroi di Carlyle, che sono i grandi personaggi a fare la Storia, a formare la nostra memoria collettiva. Immense icone simili a Titani sulle sponde del fiume: Mastroianni, Santa Teresa d’Avila, il corpo chino e straziato (che indoviniamo d’un Pasolini), Romolo e Remo che si trasformano in archetipi junghiani: gigantesche personificazioni delle vittorie e disfatte umane.

Inaugurato il 21 Aprile, durante il Natale di Roma, con una processione di ombre, musiche e canti a metà tra i fasti antonini e le danze macabre medievali, Kentridge ha lavorato per sottrazione, facendosi però scultore dell’impermanente.

Un’opera che parla al cuore e alla mente prima che all’occhio – laddove se ne colga il senso filosofico su quello estetico.

Destinata a scomparire nel corso di qualche anno, l’opera di Kentridge diviene occasione per una digressione sul tema dell’impermanenza, “vanitas vanitatum et omnia vanitasrecita Qohelet e con esso l’artista sudafricano. Trionfi e lamenti che echeggiano l’ascesa e la caduta dell’Impero Romano, e delle sue molte repubbliche da Romolo a Craxi.

Cosa rimane di quel passato di icone, di glorie e di morti ammazzati? Una memoria fatta d’ombra e di pietra, la perenne opposizione vita-morte, l’alternarsi manicheo di essere e non essere. In un’aria che trasecola, quasi che d’un tratto debba far capolino l’ampia silhouette di Fellini, sigaro e cappellaccio in testa, a dar vita a questi sogni affioranti nel travertino, ogni figura ci rimanda sempre a qualcos’altro. Alle processioni nel sud del Sud dei Santi, a quelle immerse in un’aria di vetro di Kurosawa e Bergman, alle cherubiche sfilate di volpi e maschere, morti e postulanti, ai cortei di Dioniso coi suoi coribanti fino alle fantasmagorie del teatro di Giava ed alle visioni di De Quincey. Ma se le ombre di Kentridge, come il tempo, son condannate a svanire, ciò che rimane di questo “ubi sunt” su pietra è Roma e il suo nome. 

*Roma, che era, esiste solo nel nome, noi possediamo soltanto nudi nomi

Lontano dai Cesari e dagli Augusti, l’Oriente, che ha fatto della vacuità e del culto dell’effimero la sua metafisica, ci insegna a riappropriarci di quell’antica sapienza, per la quale un uomo in Efeso proclamò l’irrealtà di ogni divenire. E l’inesistenza di ogni Gange, ogni Tevere, ogni Uomo. Così, dunque, si è trasformato il fregio di Kentridge, in una grande riflessione sulla storia e sul tempo, e in definitiva su noi stessi.

*Negli stessi fiumi tanto entriamo quanto non entriamo, tanto siamo quanto non siamo