Anna Karina, il volto tragico ed elegante della Nouvelle Vague
Storie di attrici e amanti. Nella vicenda della Novelle Vague molte muse sono state sposate con registi che hanno avuto il merito e l’intelligenza di rendere indimenticabili i loro volti, il loro stile così inconfondibilmente francofono (penso alla successiva moglie di Godard, Anne Wiazemsky, a Claude Chabrol con Stéphane Audran e Alain Resnais con Sabine Azéma). Ma probabilmente nessuna di loro, fatta eccezione forse per Catherine Deneuve, è stata iconica come Anna Karina, che ha rappresentato con i suoi ruoli talvolta tragici talvolta spassosi tutte le sfumature e le variazioni dell’eleganza e dell’erotismo, della magia e della crudeltà, della bellezza e del sublime. La giovane Hanna Karin Blarke Bayer, non ancora assunta l’identità del suo pseudonimo, arriva dalla Danimarca a Parigi nel 1958 e successivamente con l’incontro con Godard stravolge le regole del cinema internazionale. La solita storia di una donna oggetto nelle mani di un ennesimo Pigmalione? Niente affatto!
La proverbiale spavalderia degli interpreti del cinema moderno è qualcosa di noto, nella vita come sul set. Sappiamo le dinamiche rocambolesche che stanno dietro alcuni dei film più celebri del periodo d’oro, grazie a pettegolezzi o al lavoro metacinematografico di Effetto Notte di Truffaut, che ci mostra tutto il sistema complesso e fragile su cui si reggeva un cinema che oggi potremmo definire elitario. Così, non ci viene difficile immaginare la complessa relazione di complicità e ostilità alla base del rapporto coniugale e professione di Karina e Godard. Insomma, parliamo di quel turbine momenti di sintesi e di frizioni, di accelerazioni e improvvisazioni che hanno così magistralmente reso in un film come Pierrot le fou. La pellicola del 1965, grazie anche a un uso del colore figlio della lezione avanguardista di Picasso/Matisse, è un inno alle potenzialità immaginifiche del cinema, alle sue virtualità concrete fatte di slanci e parentesi esaltanti. Una scena memorabile è quella della canzone-filastrocca improvvisata dalla coppia Karina-Belmondo, che rappresenta uno dei momenti più spontanei e genuinamente creativi della storia del cinema europeo.
Grazie a una scena come questa è possibile capire quanto il topos dell’artista/intellettuale “Pigmalione” sia fuori luogo all’interno della dinamica Karina-Godard. Il cinema moderno, in quanto operazione sperimentale, era un sistema innovativo, anche se con delle falle naturalmente, capace di rivedere tutti i codici e le convenzioni che riguardavano non solo le “regole” del cinema in generale, ma anche quelle tacite che regolano il rapporto con il suo pubblico. L’approccio anarchico che lo contraddistingue non disdegna i sentieri tracciati dalla cinematografia mondali: li segue, li critica, ma li decostruisce e li complica, creando cortocircuiti per mostrare possibilità altre che prima non erano neanche lontanamente immaginabili. Nella commedia romantica La donna è la donna, elogio iperbolico della seducente femminilità di Karina, il terzetto di attori protagonisti si comporta nella Parigi del cinema moderno come stesse in un musical statunitense. Lavorando con stile e ironia con gli stilemi del genere, Godard produce un film di un’intelligenza e una freschezza che manca totalmente alle produzioni hollywoodiane. Se anche nelle pellicole simbolo del musical il mondo è un luogo fatto di cliché e figure e fondali di cartapesta, in questa commedia invece tutto è vivo, e può realmente accadere di tutto.
Nella pellicola Agente Lemmi Caution: missione Alphaville Godard lavora sul genere del noir poliziesco. Il momento più geniale del film è la scena in cui Maria Von Braun (la nostra Karina) affermando di non sapere cosa sia l’amore, incontra la versione più poetica e alta di questo sentimento. L’agente le porge una raccolta di poesie e le propone di leggerlo. Dopo diverse esitazioni lei accoglie l’invito. Inizia l’incanto. Sentiamo la bellissima voce dell’attrice leggere ad alta voce una poesia tratta da La capitale del dolore di Paul Eluard. Le inquadrature immortalano in primo piano il volto di Karina che raggiunge improvvisamente un grado di bellezza divino, non umano, complice anche un sapiente gioco di luci e montaggio. È un film di genere Alpahaville, e non si era mai visto un cambio registico così sconvolgente in nessuno dei noir precedenti, né c’era da aspettarlo.
Con l’inizio della cosiddetta “seconda fase” del cinema di Godard tali derive liriche vengono presto abbandonate, per potersi più compiutamente dedicare a un cinema politico e ancora più sperimentale. Intanto il divorzio con Karina lascia spazio a una nuova musa, Anne Wiazemsky. Il rapporto fra i due è ripercorso nel recente film di Michel Hazanavicius Il mio Godard. In seguito, alla sperimentazione degli anni Settanta si succede negli anni Ottanta una fase di parziale “ritorno all’ordine” con la “trilogia del sublime” che vede i film Passion, Prénom Carmen, e Je vue salut Marie. La popolarità di queste produzioni, anche a causa di un’erudizione diventata sempre più autoreferenziale, decresce progressivamente. Oggi i più si ricordano di una prima fase gloriosa, che risulta tuttavia come isolata e slegata da tutto ciò che è successo dopo. Insomma, per il grande pubblico non c’è Godard senza Karina.