L'Amletico

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Aurora Venturini, “Noi, i Caserta”

 Spero che la casa editrice SUR si sia data l’obiettivo di pubblicare tutte le opere di Aurora Venturini. Da due anni a questa parte ci ha fornito, infatti, prima “Le cugine”, di cui potete leggere la mia recensione qui su l’Amletico, e successivamente “Noi, i Caserta”, uscito l’anno scorso. Spero che questa osservazione sia sufficientemente eloquente da far capire quanto io sia entusiasta della scrittrice argentina e di quanto abbia apprezzato anche questo suo secondo titolo.

In “Noi, i Caserta” Venturini torna ad essere disturbante, a parlare dell’anormalità, fisica e mentale, per eccesso e per difetto.

Il sangue avvelenato della famiglia di antico lignaggio e di origine italiana produce, al termine della sua genealogia, la protagonista Chela Stradolini, le cui caratteristiche, tenuto conto dell’iperbole funzionale alla finzione della narrazione, in realtà in parte si allineano a quelle autentiche dell’autrice.

Chela infatti è una enfant prodige dotata - o, come dice lei stessa, «superdotata» - di un’intelligenza fuori dal comune che la porterà a diventare una scrittrice prolifica e quasi distaccata dalla propria produzione. Di straordinariamente sviluppato, però, Chela ha anche la crudeltà. Tale aspetto del suo carattere si può forse comprendere se si considerano le sofferenze che è costretta a subire da parte di una famiglia che non la ama, che ama di più la sorella, di bell’aspetto ma di intelligenza assolutamente mediocre e che meglio si presta a portare il vessillo della rispettabilità della stirpe. La famiglia di Chela non solo non la ama, la detesta, la crede colpevole della deformità del fratello minore, nato affetto da nanismo e da un grave ritardo mentale, e lascia che la ragazza si isoli a vivere una vita fatta di solitudine, da selvaggia, all’interno della propria casa. Chela e il fratellino saranno i due paria emarginati dai genitori e dalla bella sorella, ed instaureranno in realtà l’unico rapporto di amore famigliare che Chela conoscerà all’interno della propria abitazione.

Tutto questo, appunto, forse può spiegare i comportamenti di Chela, ma non li giustifica. Lungo tutto il romanzo il lettore è portato da un lato ad avvicinarsi alla protagonista, ma dall’altro a distanziarsene. Due forze contrapposte, una attrattiva ed un’uguale forza repulsiva, fanno sì che il rapporto fra lettore e protagonista sia perennemente ambiguo e segua un ritmo oscillatorio.

Per quanto Chela stia perlopiù in silenzio, salvo vomitare saltuariamente volgari crudeltà, i suoi pensieri, che leggiamo scritti sulle pagine e che l’autrice riporta con la prima persona, sono raffinatissime espressioni di un linguaggio tanto elaborato e colto da risultare talvolta circonvoluto. Perciò, lo stile che Venturini ha scelto per far parlare Chela contribuisce, esso stesso, a quel moto oscillatorio dianzi descritto: dalla visione incomprensibile, all’espressione del puro male, alla poesia commovente che desta grande empatia, il lettore viene attratto e respinto incessantemente.

Via via che ci si avvicina alla conclusione del romanzo i margini del racconto diventano sempre più liquidi e torbidi, le visioni sempre più inestricabili, la realtà sempre più distante.

Il processo mi ha ricordato non poco una simile tendenza in “L’iguana” di Anna Maria Ortese, romanzo che con questo di Venturini condivide, secondo me, l’inquietudine suscitata da creature fuori dagli schemi ordinari della società e da visioni a cavallo fra realtà e magia.

Il viaggio che Chela intraprenderà la porterà da un lato ad allontanarsi, con un sospiro di sollievo, dalla casa in cui si sono consumati gli orrori della sua infanzia, dall’altro ad avere sporadici contatti con la realtà esterna, quella che muove i grandi avvenimenti delle Nazioni, che àncora le esistenze, persino quelle magiche, ad un più prosaico rapporto di causa ed effetto. Ma il peregrinare di Chela coincide anche con quel liquefarsi della realtà, ed ecco che nel flusso sempre più voluttuoso delle visioni alcuni scogli, come il peronismo in patria, demarcano forse una linea temporale della vicenda, senza però riuscire a fornire appigli sufficienti a fare approdare il lettore a una sponda tranquilla.

Chela attraverserà paesi reali che sembrano immaginari, dall’Isola di Pasqua a una Francia che somiglia più ad una visione neogotica, disseminata di sette e riti iniziatici. Giungerà infine in un’Italia quasi irriconoscibile per il lettore autoctono, in una Sicilia che sembra il regno di una favola grottesca e che effettivamente svelerà alcuni turpi segreti dell’atavica maledizione di Chela.

Perciò, in conclusione, perché questo libro mi è piaciuto? Dando per assodata l’altissima qualità della prosa di Venturini, potrei rispondere che la complessità è attraente, e che il male lo è; tutto ciò che devia dalla linea retta della normalità opera una forza magnetica che attira a sé la curiosità, anche quella più morbosa, non dissimile da quella che dona tanto successo al giornalismo di cronaca nera. La storia di Chela è nera.