Benedetta Craveri, “La contessa”
Dopo circa un terzo del libro, trascorso a leggere una quantità di seduzioni, di rapporti piùcchestretti con i protagonisti della storia del XIX secolo, di irrequieti trasferimenti e ancor più irrequiete saisons mondane, Craveri scrive, come se nulla fosse, qualcosa come “Virginia aveva ventitrè anni”. La cosa si ripete una manciata di volte: dopo una serie di racconti che per quantità ed intensità basterebbero a riempire sufficientemente un’intera vita prodigiosa e forse un paio di vite rimarchevoli, Craveri cita gli anni della contessa e ci dice ogni volta un’età da adolescente, se non proprio da bambina.
Virginia Verasis contessa di Castiglione aveva circa diciotto anni quando fece il suo debutto in società in una Torino provinciale; ne aveva circa venti quando stringeva e dirigeva gli intricati fili della vita culturale e politica di Parigi e della costruenda Italia.
Questa piccola osservazione potrebbe bastare per dare un’idea del rango di questo personaggio protagonista della storia risorgimentale italiana. Bisogna però aggiungere un altro tassello. Tutto quello che la contessa ha ottenuto è stato in funzione della sua straordinaria bellezza. Quando giungeva in un posto non andava alla sua conquista, andava piuttosto a raccogliere quanto aveva già conquistato poiché dove arrivava fisicamente era già stata preceduta dalla sua leggenda. Così giunge a noi questo libro: preannunciato dalla bellezza di Virginia Verasis di Castiglione.
Avendo a che fare con una figura pressoché mitologica, con una persona tanto straordinaria da diventare personaggio, è facile cadere nella non biasimevole idolatria. Craveri però non inciampa in questa pietra dorata e mostra, con il linguaggio sobrio e corretto dell’esattezza della ricerca storica, di cui il ricchissimo apparato di note è prova, il multiforme carattere della contessa senza cedere ad iperboli.
Personalmente, ad inizio del libro, mi sono quasi infastidito di non trovare riscontro all’enfasi della contessa nella morigeratezza quasi dimessa della scrittura di Craveri, che talvolta si fa tanto informale da sembrare colloquiale, quasi l’autrice e la contessa fossero amiche d’infanzia. Poi però, procedendo nella lettura, Craveri cita in continuazione la vastissima produzione epistolare della contessa, che spesso parla una lingua incredibilmente informale, quasi colloquiale, trattando persino Re ed Imperatori alla stregua di amici d’infanzia. Parlando della contessa, Craveri si avvicina al suo linguaggio, senza però imitarlo e lasciando che il mito si sviluppi per autogenia e non dai voluttuosi flutti di una prosa favoleggiante.
L’autrice ha l’eleganza di lasciar parlare la contessa, che basta a se stessa: questa, dopotutto, è la costante della sua vita. Certo, aveva bisogno di aiuto, certo, era attanagliata dalle preoccupazioni economiche, ma era lei che decideva da chi essere aiutata e in quale - gigantesca - misura, era lei che, in mancanza di soldi - poiché una donna ha bisogno di soldi e di una stanza tutta per sé, non solo se vuole scrivere romanzi - andava a procurarseli.
L’indipendenza è stata per la contessa una continua necessità ed una ossessione, non è difficile capire come questo lato del suo carattere sia proprio quello col quale sia più complicato empatizzare. Questo è vero soprattutto riguardo l’indipendenza nei confronti del figlio: alla contessa non si perdona la mancanza di affetto materno. Per estensione mi permetto di dire che di solito, ad una donna, contessa o meno, non si perdona questa mancanza; quando il genitore geniale ma distante è il padre lo sguardo del mondo è più indulgente. Craveri racconta benissimo questo rapporto doloroso e resta al di sopra di un facile giudizio, anche in questo elegante. Forse la contessa non avrebbe dovuto essere madre, ma adempiere una volta ai propri doveri coniugali - imposti dall’alto da una società patriarcale e misogina e forse, chissà, subiti o dimessamente accettati o scaltramente assecondati - è stata la chiave della sua agognata indipendenza. Certe donne vengono benedette dalla sterilità, alla contessa di Castiglione non è toccata questa fortuna. Si è ritrovata madre senza avere il talento per esserlo. I talenti molteplici e favolosi della contessa erano altri.
Giunta ormai alla decadenza della propria vita, ella scrive su un biglietto di auguri per la nascita della figlia degli amici Cléry: «Spero che diventerà bella, è necessario per affrontare il mondo». Della propria bellezza, croce e delizia, sfruttata senza remore dalla stessa società che la voleva moglie e madre sottomessa e che la dava, giovanissima e bellissima, in pasto agli appetiti sessuali del «Vecchio» Napoleone III e del «Porco Re» Vittorio Emanuele II, la contessa ha intelligentemente compreso la forma di arma. Ma mentre gli uomini, trasformando l’ammirazione in volontà di possesso, tentavano di rivolgerne la lama contro di lei, la contessa ha strappato con forza l’elsa e ha diretto la parte micidiale contro il mondo.