La fotografia documentaristica di Michele Cirillo. Uno sguardo inedito sulla contemporaneità
Seduta al tavolino di un bar, sto sfogliando le pagine porose di una fanzine fotografica, intitolata Il lungo viaggio. La carta cuoio non calandrata conferisce estrema intensità agli scatti, che presentano una riflessione sull’archeologia dell’isolamento.
Autore e curatore del progetto è Michele Cirillo, fotoreporter e docente romano, che, davanti a una tazza di caffè, mi racconta del processo creativo e del lavoro di ricerca che si è concretizzato nella narrazione per immagini. Nel 2019 in occasione di una residenza artistica, ha realizzato un programma di mappatura visiva dell’isola dell’Asinara, cogliendo l’infinitezza e l’aspetto selvaggio della terra sarda che aveva offerto protezione a Falcone e Borsellino nel 1985. Ne ha riportato alla luce le tracce della memoria storica e si è soffermato sulla vicenda del gruppo scultoreo del prigioniero ungherese Georg Vemess, Il lungo viaggio. Quest’opera del 1916, scomparsa da Campu Perdu durante il passaggio dall’amministrazione penitenziaria dell’isola all’Ente Parco, ricordava le atroci sofferenze dei prigionieri austro-ungarici in marcia verso il campo di reclusione dell’Asinara e simboleggiava un inno di speranza e solidarietà tra i popoli.
Osservando la sequenza di scatti che compongono Il lungo viaggio, si intuisce come la progettualità di Michele contempli, ogni volta, diverse prospettive di interpretazione dell’immagine, dall’approccio semiotico a quello storico-filologico, senza trascurare l’importanza della resa materica della stampa. Interessato ai fenomeni più dibattuti della contemporaneità – dall’immigrazione alle questioni identitarie, dai diritti umani ai cambiamenti geopolitici, ai rischi ambientali – Michele adotta nei reportage un linguaggio immediato e rispettoso delle diverse sensibilità, senza mai censurarsi, individuando punti di vista inediti dai quali sviluppare le problematiche.
Nonostante la giovane età, ha già collaborato con testate di primo piano: “Internazionale”, “La Repubblica”, “Vanity Fair”, “The Post internazionale”, “LifeGate”, “Wall Street International”, “Revue Project”, “Radiotelevisione Svizzera”, “Zeke Magazine”. Alcuni suoi progetti sono stati esposti in importanti rassegne internazionali, ottenendo prestigiosi riconoscimenti. Il reportage The Kurdish Bride è stato selezionato per essere esposto nel 2017 all’Ermitage di San Pietroburgo, nell’ambito del Media Congress “Dialogue of Cultures”, dove si è classificato primo. Gli scatti di Forgotten War sono stati premiati al Tokyo International Foto Award e ospitati nella mostra collettiva organizzata presso l’Ambasciata d’Ucraina in Italia nel 2018. In quello stesso anno, è stato curatore del Museo della Fiducia e del Dialogo di Lampedusa, presentando la videoinstallazione site-specific Apnea; è attualmente responsabile della produzione video alla Camera dei Deputati.
La passione per la fotografia documentaristica e la vocazione per l’insegnamento costituiscono due aspetti complementari della carriera professionale di Michele, che dopo essersi laureato in scienze dell’educazione, si è specializzato nell’ambito delle relazioni internazionali e del giornalismo investigativo. È proprio dal racconto di una delle sue ultime esperienze di docenza che inizia l’intervista.
Tre anni fa, nell’ambito di un progetto dell’UNHCR in collaborazione con l’Autorità garante per l’Infanzia e l’adolescenza, sono stato scelto per seguire due classi di minori non accompagnati stranieri. Durante gli incontri dei workshop, i ragazzi hanno effettuato, come veri fotoreporter, sopralluoghi in diverse parti della città di Roma, spostandosi dal loro quartiere – Ponte Galeria e zona Rebibbia – al centro.
Come docente, l’obiettivo principale era per me quello di fornire loro gli strumenti giusti per esprimere, attraverso la fotografia, la propria visione della realtà. Non importava che potesse rivelarsi diversa da quella immaginata dal committente. Non importava che nei loro sguardi non si ritrovasse la denuncia delle problematiche legate alla città, perché quello che emergeva era la bellezza che ognuno di loro viveva nella quotidianità, nei momenti di condivisione, nelle piccole cose.
Questo per me doveva essere la chiave di volta del progetto.
La fotografia oggi sembra un’arte accessibile, alla portata di tutti, ma l’intenzionalità che, spesso, si nasconde dietro un singolo scatto rende tutto più complesso e diventa una forzatura. Al contrario, la naturalezza, la potenza narrativa degli scatti dei ragazzi è emersa immediatamente e il loro lavoro è stato esposto al Museo delle Mura di Roma, nella collettiva Io So(g)no. Lo sguardo dei minori stranieri non accompagnati sulla loro realtà e i loro sogni e presentato, in un secondo momento, al Museo dell’Ara Pacis.
Michele, quando sei tu, invece, ad indossare le vesti del fotoreporter, come scegli il soggetto e la prospettiva attraverso la quale sviluppare un determinato tema? Come nasce una storia? Penso, ad esempio, al reportage Forgotten War (2017) o al progetto Cambiare l’immigrazione. Il corridoio sicuro che collega il Libano con l’Italia (2018), dove si è creato un fecondo dialogo interculturale.
Tutti i miei lavori sono nati da esigenze personali, per quanto poi nella realizzazione abbia ricercato valori universali da condividere. La curiosità mi ha portato ad appassionarmi a numerosi progetti, che sebbene non fossero su commissione all’inizio, sono stati poi pubblicati ed esposti in diverse mostre.
Ad esempio, nel caso dell’Ucraina (n.d.r. Forgotten War), per me era impensabile che ci fosse una guerra in Europa e che nessuno raccontasse come vivesse la popolazione del Donbass, come gli abitanti sperimentassero ogni giorno il senso di alienazione. Ci arrivavano moltissime immagini degli scontri, ma nessuno si soffermava su questo aspetto, sulla vita di quelle persone. Quel reportage è stato incredibile per me, perché mi sono mosso in ritardo e questo mi ha permesso di capire cosa potesse essere ancora raccontato: mancava un progetto sviluppato con calma. Come diciamo spesso tra colleghi, la guerra è sempre uguale, i fucili sono quelli, il sangue è sempre lo stesso e, all’inizio, per questo motivo, si è anche carichi di adrenalina. In quell’occasione, però, io ho scelto di girare l’obiettivo della fotocamera verso i paesi che stavano sulla linea del fuoco, verso la cittadinanza, preferendo la pellicola per rendere la loro sensazione di straniamento.
Stessa riflessione ho maturato per il reportage sui corridoi umanitari (n.d.r. Cambiare l’immigrazione): si parla tanto di immigrazione, ma la “buona immigrazione” viene raccontata poco - faccio riferimento all’immigrazione legale. Si parla solo di immigrazione illegale. Esiste, invece, un’immigrazione legale? Come è gestita? Chi ne è responsabile? Per me era interessante sapere quali associazioni umanitarie lavorassero in Libano e come potessi raggiungerle da Roma. Ho pensato subito alla Comunità di Sant’Egidio e li ho contattati. Avere a cuore il tema dell’immigrazione significa, soprattutto, non sottovalutare l’importanza della sensibilizzazione, dell’educazione a questa problematica. Per molti miei colleghi, affezionati a questo tema quanto me, lavorare sull’immigrazione significa raccontare degli sbarchi o dei morti in mare. Secondo me, da giornalista, fotografo, curioso bisogna trovare strade diverse.
Per affrontare tematiche che interessano la contemporaneità a livello globale, è necessario mettere in discussione il proprio punto di vista e adottare uno sguardo nuovo. Ti è mai capitato di dover fare i conti con pregiudizi innati di cui non si è sempre consapevoli?
Assolutamente sì, e il Libano, ad esempio, nel caso del progetto Cambiare l’immigrazione mi ha offerto il punto di vista più interessante per raccontare quello che stava succedendo in Siria.
Studiando geopolitica, mi sono reso conto della storia incredibile che ha questa nazione e di quanti immigrati di diversa provenienza avesse accolto nel tempo. È una terra con un’identità molto frammentata.
Nei tuoi scatti si percepisce subito il desiderio delle persone di condividere con te la propria storia, momenti preziosi e, talvolta, intimi della quotidianità. Come si è creato, nei reportage The Kurdish Bride (2014) e de L’accoglienza dolce (2016), questo rapporto di fiducia tra chi è al di là e al di qua dell’obiettivo fotografico?
Di base ci vuole tempo. Bisogna capire in che modo incuriosire chi deve essere raccontato, perché le persone sono stufe di vedersi raccontare attraverso le stesse immagini. A Riace (n.d.r. L’accoglienza dolce), ad esempio, non so quanti giornalisti siano scesi e abbiano adottato sempre lo stesso punto di vista. Io, dopo una prima fase di studio e analisi, di quanto anche era stato già detto, mi sono mosso con i contatti e ho cercato di trovare uno sguardo diverso, confrontandomi direttamente con le persone, spiegando il mio progetto.
La disponibilità si trova quando i tuoi interlocutori capiscono che tu stia lavorando per loro, che la tua curiosità ti spinge a far vedere un pezzetto di mondo che non è inaccessibile, ma che si vede sempre dalla porta d’accesso principale.
Ci sono, invece, mille porte per accedere allo stesso fenomeno e, secondo me, alcune sono più efficaci di altre.
Ti faccio l’esempio del Kurdistan. Come raccontare qualcosa che si conosce poco, come l’ostilità che esiste tra turchi e curdi? Storicamente questo sentimento è chiaro e documentarsi aiuta ad avvicinarsi a questo tema.
Il progetto The Kurdish Bride è nato da circostanze inaspettate: un mio amico, mediatore culturale, mi ha chiesto scherzando qualche anno fa di fotografare il matrimonio della sorella. Ingenuamente, pensavo si trattasse di una chiesa di Roma, o Caracalla magari e, invece, ho scoperto che il matrimonio sarebbe stato celebrato tra Kurdistan e Turchia, con non pochi problemi all’interno delle famiglie dei due sposi. Non ho avuto dubbi e sono partito subito, investendo personalmente nel progetto. Ho scelto di coinvolgere Emanuela Laurenti, una mia collega, per poter raccontare il rito dal punto di vista maschile e femminile. La storia ha funzionato e siamo stati invitati ad esporre i nostri scatti all’Ermitage di San Pietroburgo, in occasione dell’evento internazionale di giornalismo estero “Dialogue of Cultures”, vincendo il primo premio. Siamo stati chiamati perché per gli organizzatori questo progetto rappresentava il massimo: due fotografi italiani, andati in Kurdinstan e in Turchia a raccontare una storia di una Giulietta e un Romeo, che appartenevano a due etnie in conflitto.
Facendo riferimento alle didascalie, ai grafismi presenti nei tuoi scatti, ai titoli stessi dei tuoi progetti, quale è il rapporto che esiste tra parola e immagine? Nel caso dell’indagine sull’emergenza abitativa, Insulae (2014-2019), presentata al MACRO Asilo di Roma, come si è tradotta questa ricerca in progetto editoriale?
Il rapporto parola e immagine è insito in tutto ciò che concerne la semiotica. Studiando teoria e tecnica dell’immagine, si è consapevoli che l’immagine si avvale di costruzioni di senso, che nasce attraverso la parola. Partendo da questo presupposto, a seconda del pubblico, delle diverse sensibilità, l’estetica può suggerire una diversa lettura dell’immagine stessa.
Con Insulae la ricerca del senso è diventata quasi un’ossessione. Volevo capire profondamente l’origine del problema dell’emergenza abitativa romana.
Ho provato ad andare a ritroso nelle legislature comunali, ma non era sufficiente per me, perché non potevo attribuire la colpa di un fenomeno più complesso a una singola personalità. C’era qualcosa di più profondo, di più grande, universale. Mi sono incuriosito, ho iniziato a documentarmi, confrontandomi con studiosi, e mi sono reso conto che la situazione emergenziale era analoga a quella che si viveva nelle insulae romane. L’origine del problema era, quindi, lontano nella storia ed era intrinseco nella nostra città.
È stato importante per me dare forma fisica alle ricerche, curando nel dettaglio ogni aspetto della pubblicazione, a partire dalla scelta dei materiali. Tutto il progetto doveva essere coerente. Ho chiesto a Daniele Romaniello, mio amico cartaio, di creare appositamente una carta simile all’intonaco del muro per chiudere il cofanetto della pubblicazione e ho scelto di foderare il glossario dell’emergenza abitativa con la stessa carta Pagani utilizzata storicamente per i registri. Il lavoro di documentazione, durato quattro anni, è stato tradotto graficamente su una mappa della città di Roma, dove sono stati identificati con un codice tutti i siti dei miei sopralluoghi. Gli scatti corrispondenti sono stati, invece, stampati sul recto di un leporello di 16,5 m che, riproponendo in lunghezza l’altezza di un’insula romana, riportava sul verso tutti i decreti sull’emergenza abitativa emanati dall’amministrazione comunale romana dal 1991 al 2017. Si poteva, così, leggere da un lato tutto quello che era stato fatto burocraticamente e constatare dall’altro i risultati raggiunti. Non era necessario alzare la voce, gli scatti chiarivano già tutto.
Tutti i tuoi progetti sono caratterizzati da una profonda e attenta ricerca curatoriale e Insulae sicuramente ne è una testimonianza. Come si sviluppa questa stratificazione di significati che permette di accostarsi all’immagine, scegliendo ogni volta, diversi livelli di lettura?
Lavoro sempre sulla progettualità, molto difficilmente sulla foto singola e per me il non plus ultra è la pubblicazione. Mi interessa la sequenzialità delle immagini, il fatto che nel libro, ad esempio, ci sia un inizio, una fine, un ritmo. Le foto singole, belle, piacciono anche a me, ma preferisco sviluppare un progetto più ampio. Sai, però, questo anche da cosa dipende? Da quanto guardi gli altri e da quanto studi. Accontentarsi di una gallery di dodici scatti su internet diventa riduttivo, perché non ti permette di capire quanto le immagini possano essere incisive.
E non posso farti un discorso solamente lavorativo o professionale, senza raccontarti chi sono io e come vivo le cose. Tutto un po’ si somma, soprattutto, in questo ultimo periodo. I miei diari visivi ne sono un esempio: una sequenza di foto scattate con una Olimpus PEN degli anni ’70, che realizzo più o meno una volta l’anno.”
Nel 2018 sei stato curatore del Museo della Fiducia e del Dialogo per il Mediterraneo di Lampedusa. In quell’occasione hai presentato la videoinstallazione site-specific Apnea (2018), un racconto in tre atti dell’esperienza dei salvataggi in mare. In quest’opera, Il processo di costruzione dello sguardo diventa complementare allo sviluppo narrativo e lo spettatore è portato repentinamente ad assumere, ogni volta, punti di vista diversi. Le immagini che si susseguono sullo schermo hanno una forza espressiva disarmante…
Devo dire che le soluzioni visive adottate in Apnea hanno una lettura piuttosto complessa: nel terzo atto del racconto, ad esempio, ho scelto di ricorrere all’approccio terapeutico dell’EMDR (n.d.r. Eye Movement Desensitization and Reprocessing), un processo di desensibilizzazione ed elaborazione dello stress post traumatico che si basa sul movimento oculare.
Uno degli aspetti più complessi di questo progetto è stato, tra l’altro, lavorare su immagini non mie che, però, ho fatto diventare mie. È anche questo un processo di produzione, che porta, inevitabilmente, a interrogarsi sull’uso che facciamo delle immagini. Mi sono rivolto alla guardia costiera, ai vigili del fuoco e mi sono fatto dare le loro immagini dei salvataggi in mare, montandole, poi, insieme.
L’installazione è stata, quindi, concepita come un’esperienza immersiva e visiva unitaria: dopo aver percorso un corridoio buio con delle reti da pesca, bagnate con vernice UV, il visitatore entra in una stanza buia con dei giubbotti di salvataggio recuperati dalle navi dei migranti di Lampedusa e assiste alla proiezione che si articola in tre capitoli e si conclude con un canto tipico.
Vedere i migranti commuoversi nella sala, davanti all’installazione, è stato un momento di grandissima emozione e condivisione.
A conclusione del nostro “lungo viaggio”, mi piacerebbe parlare del tuo ultimo progetto Satelliti (2020). In questa occasione, hai indagato le conseguenze della pandemia, offrendo uno sguardo su un fenomeno globale che ha messo a nudo le fragilità degli individui e ha portato a riconsiderare il concetto di libertà, trasformando il modo di vivere fisicamente i rapporti. In questo mosaico di memorie, le dimensioni del micro e del macrocosmo si sovrappongono. Cosa vuol dire raccontare questa esperienza seguendo un “pensiero rizomatico” e che ruolo hanno avuto le storie dei protagonisti degli scatti?
In questo caso è stato importante creare un impianto che raccontasse le difficoltà e il senso di frammentazione della pandemia. Mi servivano solamente alcuni dettagli di ritratti, nasi bocche, occhi. Mi sono rivolto ai miei amici, ma le loro storie, in questo caso, non mi interessavano, perché era l’impianto a valere più della singola immagine, più del contenuto. Durante questo periodo, per quanto circondati di affetti, siamo diventati più consapevoli della solitudine. Il progetto doveva, dunque, essere modulabile e racchiudere l’esperienza di sentirsi sia satelliti che frammenti.
Nella fase progettuale, sono partito da una mappa, dove il tema che ricorreva maggiormente era quello dello spazio, dell’ignoto, del distante, del frammentato.
Noi fotografi, soprattutto all’inizio, tendiamo ad essere positivisti, ad adottare un atteggiamento quasi scientifico, ad essere nudi e crudi, catturando con l’obiettivo, solo quello che c’è, che è visibilmente percepibile, a pensare che quello che immaginiamo non si possa fotografare. La grande forza di un fotografo maturo, invece - ed è anche quello che cerco di trasmettere ai miei allievi – è riuscire ad esprimere anche ciò che non si ha davanti. Si possono utilizzare anche immagini di altri, ricomponendole. Un gioco che può essere molto serio.