GECO rovina o migliora la città eterna?
Il caso di Geco ha stregato i media. In queste ore si parla di questo giovane writer “catturato” dalla polizia nel suo appartamento a San Lorenzo. Ma il web si divide alla luce di una questione annosa: Geco è un artista o un vandalo? È giusto condannarlo per le sue scritte? Da alcuni ritenute esteticamente valide e da altri semplicemente insulse. La problematica è spinosa e aperta, ma forse possiamo porci interrogativi più interessanti.
Innanzitutto c’è da fare una premessa, duplice nel nostro caso. Non ci porremo il quesito se questa sia o no arte: ci chiediamo piuttosto come un fenomeno così in voga, quello del graffitismo nella sua valenza semantica più estesa, sia diventato un linguaggio talmente condiviso e capillare che continua a produrre nuovi esiti. Abbiamo bisogno di affrontare la questione con un atteggiamento aperto, non giudicando a priori né lasciandoci guidare dalla soggettività, cedendo al richiamo del classico polarismo “bello/brutto”. Dietro queste opere, e appunto dietro e non dentro di esse, c’è tutto un sistema che ha permesso la loro realizzazione e la loro diffusione, un sistema che è interessante esplorare per conoscerlo e capire il nostro presente.
Geco fa parte di questo mondo, di questa storia attuale. Il linguaggio del “bombing”, pratica utilizzata tra i tanti anche da Geco, riguarda proprio questa formula di appropriazione di spazi con una logica quasi da Far west, per cui si marchia il territorio con il proprio nome fittizio, segnando una presa di potere. Ma c’è anche un’altra storia, e qui inizia la nostra seconda premessa: intendiamo brevemente ripercorrere la genealogia del graffitismo come gesto, che inizia dalla preistoria.
Le origini dei murales
Sappiamo che il primo gesto artistico fu un murales ante litteram. Lascaux, come afferma anche Georges Bataille, è il luogo dove nasce l’arte. Non in Egitto o in Grecia. L’uomo, come affermano gli antropologi e ci confermano recenti studi in ambito neuropsicologico, possiede un naturale impulso a creare, e questo impulso è stato soddisfatto nella preistoria attraverso l’atto del colorare, del disegnare (in maniera rudimentale ma altamente efficace e commovente) i muri delle caverne. La forza di questa prima manifestazione artistica viene presto mitigata dall’uomo, che intanto si fa sempre più “civile” ed “educato”. Il mondo cambia, la sua arte cambia. Non sono più le mani, come nelle grotte di Altamira, o rudimentali strumenti a essere impiegati, bensì pennelli e attrezzi che servono a sostenere una geometria, un’armonia nel quadro. Si potrebbe dire che il gesto “autentico” del primitivo viene via via censurato, sublimato. Eppure questa parabola non si conclude con la scomparsa dell’arte graffitara, ma solo con una sua ricontestualizzazione. Non sono più le grotte, ma i muri dei palazzi rinascimentali ad essere decorati. Grandi nomi della pittura, come Giorgione e Polidoro da Caravaggio, hanno contribuito alla creazione di quest’arte contingente, transeunte, perché appunto esposta alle intemperie del tempo e del caso. Un’arte pubblica, che dialoga con l’urbanistica e la vita sociale.
muri puliti popoli muti
Ma quest’arte muraria risorge anche in altre forme. Recita il detto: “Muri puliti popoli muti”, e l’arte del graffito riscopre la sua valenza violenta, primitiva, tramite la forma della protesta. Basti pensare all’attacco vandalico dei lanzichenecchi durante il sacco di Roma del 1527, i cui segni sono ancora ben visibili sugli affreschi Vaticani di Raffaello. Si potrebbe dire che in questo caso la scritta è come un rigetto astioso, una forma di violenza cieca.
Alla fine dell’Ottocento avviene ancora un mutamento importante. La nascita del manifesto, stampato e rispondente a una logica di propaganda, di pubblicità d’assalto, fa sì che le strade di Parigi cambino radicalmente. Non si tratta di graffiti incisi sui muri, certo, però si tratta sempre di gesti che cambiano le pareti urbane e ne alterano i connotati, anche se non per sempre. I manifesti colorati, altro oggetto effimero e “pop”, cambiano il volto dei Boulevard, ma mutano anche sul piano teorico il modo di intendere l’arte. Questo, quando il riconoscimento di artisti quali Toulouse-Lautrec diviene un fatto acquisito e unanimemente riconosciuto.
Nel Novecento, arte e riprocucibilità, arte alta e cultura popolare, sono dei temi centrali nella svolta artistica compiuta dalle Avanguardie storiche. E negli anni Sessanta è il tempo del Nouveau Réalisme. Qui la logica del “manifesto” e quella vandalica si uniscono nell’arte di Mimmo Rotella, uno dei suoi esponenti più noti. La pratica del decollage, infatti, si unisce a quella del graffito quando l’artista strappa, da un palinsesto di pubblicità confuse e sovrapposte, queste immagini, introducendo la traduzione segnica di questo gesto violento.
La tag come simbolo della propria presenza
Ma è con gli Stati Uniti di Wild Style, primo film Hip-Hop del 1983, che i graffiti vengono associati la sottocultura popolare. A partire dagli anni Settanta, infatti, il Bronx e altri quartieri allora malfamati di NY ospitano i celebri “block party”, veicolo di questa forma di linguaggio, rappresentando un momento clou in cui una comunità inizia a esprimersi compiutamente. La nascita della cultura Hip hop, con le sue quattro discipline (MCing, B-boying, DJing, Writing) contribuisce a delineare l’attuale fisionomia dell’universo del graffitismo. Qui viene introdotta la parola “Tag” - la firma del writer – un’operazione che si pone l’obiettivo di affermare tramite l’impiego di questo pseudonimo, sintetizzato secondo una certo formato estetico, la propria presenza.
I graffiti, dunque, fanno parte di un mondo da una parte aperto a tutti (molti si riconoscono nella loro estetica, li trovano fortemente comunicativi), dall’altra fortemente chiuso e auto-ghettizzato: è l’agonismo a spiegare questa profusione di tag sui muri delle città, nel tentativo di affermare la propria presenza a discapito di qualche rivale. Quando la loro estetica diventa riconoscibile, e la sottocultura diventa cultura, il fenomeno si diffonde anche in Europa. Gli anni Novanta poi, sono la golden age dell’Hip-Hop. Tuttavia, da qui in poi si realizza un cambiamento importante. Il linguaggio del graffitismo – fatto di forme, colori dinamici e strillanti e tag risolutamente autoreferenziali – trova un nuovo nome: Street art.
la street art si istituzionalizza
Questa nuova forma d’arte comincia ad entrare nelle gallerie e nei musei, e la sua istituzionalizzazione contribuisce a diminuirne il potere provocatorio. Viene in qualche modo edulcorata, resa accessibile al grande pubblico borghese. Un esempio paradigmatico è quello di Jean Michel Basquiat, che ha vissuto la scalata dalle strade alle gallerie e dalla miseria al successo. Da writer Basquiat si firmava “SAMO” (che stava per same old shit) riempiendo i muri newyorchesi a suon di spray, ma il suo percorso artistico e l’interessamento di Andy Warhol lo porteranno in breve tempo nella Factory e nelle gallerie più in voga.
Nel bel film di Julian Schnabel dedicato all’artista c’è una scena emblematica in cui dei ragazzi staccano dalla strada un murales di SAMO, perché ha ormai un certo valore essendo un artista riconosciuto e affermato. Basquiat li vede e si palesa come l’autore del tag, ma i due non gli credono e lo picchiano. Questa scena esplicita il cambiamento di visione nei confronti del graffitismo: da elemento di degrado urbano a opera di valore, denunciando anche una certa ipocrisia borghese e benpensante.
Tuttavia, se i graffiti e la Street art si compongono di una grammatica vera e propria, si può dire che essa si avvale di un grado di codificazione elastico. Non c’è, infatti, una lingua originale che si può chiamare come tale. È una forma di linguaggio che prende vita in una comunità minoritaria e underground, orgogliosa delle proprie origini ma aperta al cambiamento. Il linguaggio di questa arte è tutta un barbarismo praticato dalle persone più disparate, fatta di elementi convenzionali e personali. C’è una superfetazione fertile che cambia continuamente le regole. Come? Semplicemente con l’arrivo di un nuovo writer. Questo linguaggio, anche se ostico da giudicare in senso artistico, è un linguaggio ampiamente inclusivo.
la personalizzazione dei muri
I giovani, grazie ai social e alla loro comunicazione interattiva, sono abituati a partecipare e introdurre la loro persona attraverso un commento, un post, una foto, una storia, un video. Forse l’idea di animare una parete con un proprio contributo personale deriva proprio dalla volontà di rendere questa stessa parete non più amorfa e asettica, ma personalizzata, così come lo può essere il proprio account Instagram.
L’epoca della bruttura
E Geco dove si inserisce? Le sue opere destano reazioni anche molto violente: abbiamo visto come queste creazioni costituiscono un fenomeno sociale e comunicativo che al contempo può essere estremamente divisivo. Qui vogliamo offrire alcuni spunti polemici, non per dare inizio a sterili polarizzazioni, ma per suscitare interrogativi utili a un’attenta riflessione sul presente delle nostre città. Ci domandiamo: quante brutture deturpano panorami urbani più o meno belli e non vengono denunciate perché in fondo le persone nemmeno ci fanno caso? Edifici fatiscenti (come il mercato Metronio dove GECO realizza la più spettacolare delle sue firme), impalcature sempiterne, palazzine nate dalla speculazione edilizia, pubblicità enormi e di cattivo gusto, sono tante le brutture che spesso non suscitano la nostra attenzione e di conseguenza la nostra indignazione, perché nessuno ce le ha mai fatte notare. Pubblicità che vengono esposte sulle impalcature dei monumenti in via di restauro (pensiamo alla “spaghettata” esposta sulla facciata di Trinità dei Monti qualche anno fa). Si potrebbe dire: non dura per sempre, ed è vero, ma nemmeno un graffito dura per sempre. Si potrebbe controbattere ancora: una nasce per conservare e un’altra per danneggiare. Ma anche qui la questione è spinosa: quanti graffiti sono nati in quartieri soggetti a rigenerazione urbana come Garbatella, appunto con lo scopo di riqualificarli? Allora un graffito per essere accettato e giudicato bello deve per forza passare attraverso un iter burocratico che ne sancisce l’artisticità e il valore? Davvero le istituzioni hanno questo buon gusto e questo potere magico, nobilitante? Sappiamo che la Street art non è nata così, perché era una forma di linguaggio intrinsecamente clandestina, ma non per questo sordida e implicitamente distruttiva. Era il linguaggio di una comunità che non si riconosceva con i dettami estetici, morali e identitari della maggioranza bianca degli Stati Uniti. Non c’era bisogno di nessuna legittimazione dall’alto per essere riscattata, era semplicemente viva.
A fronte di tutti questi interrogativi (che noi lasciamo aperti) restano tante brutture urbane, tacitamente accettate, anche se non consapevolmente. Ma GECO no. Lui è sotto i riflettori, e il suo caso è ufficialmente aperto. I media l’hanno assediato.
Adesso è lui a dover rispondere di tutto questo degrado informe che è un problema generalizzato e tentacolare, che per essere affrontato meriterebbe ben altro trattamento, e la “cattura” di molti responsabili che resteranno eternamente anonimi, impuniti.
Non resta che chiedere a voi cosa ne pensiate di questa vicenda. Noi vi abbiamo offerto molti elementi, storici e contemporanei, per darvi modo di giudicare, al fine di farvi entrare in un mondo di complessità. Questa realtà, come tutta la realtà, è complessa, e non si capisce dal primo sguardo. Un firma è solo una firma, si può affermare. Un Tag è solo un Tag. Ma nessun fenomeno è così semplice e isolato come queste affermazioni apodittiche sembrerebbero sostenere, rigide e inadeguate alla nostra realtà mutevole e sfaccettata. Adesso è il turno di GECO, ma le questioni trattate che riguardano le nostre città resteranno aperte, in attesa di nuovi eroi, vittime, vandali, criminali, burocrati - insomma - “attori” che parteciperanno alla messa in discussione, si spera, di un fenomeno di degrado che per ora non sembra destinato ad arrestarsi. Chissà, forse il caso GECO potrebbe essere lo spunto per mettere in discussione il nostro punto di vista.