L'Amletico

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Su le mani per Guercino

Guercino, Mosè, 1609-1610, olio su tela, 72 x 63 cm, Rothschild Foundation

Una visione mosaica si aggira per Roma. È apparsa a ogni crocicchio, nei cartelloni pubblicitari e sugli autobus sferraglianti e gremiti. Visione di cosa? Di luce, di presenza divina, di trascendenza, non è dato saperlo. Nodose mani spalancate verso l'alto, corna di luce e sguardo stupefatto, una cosa è certa: 'deus aderit'. È il vibrante Mosè dipinto da Guercino, recentemente attribuito al pittore di Cento, che annuncia la grande mostra a lui dedicata alle Scuderie del Quirinale: "Guercino. L'era Ludovisi a Roma". 122 opere rievocano il contesto dell'Urbe durante il pontificato di Gregorio XV Ludovisi, breve e meno celebre del precedente papato Borghese e del successivo Barberini, ma altrettanto importante e fertile per le arti. L'interesse per Guercino è in costante crescita da quando Sir Denis Mahon, raffinato collezionista-studioso britannico con un piede a Piccadilly Circus e l'altro in Piazza Grande, diede avvio alla sua riscoperta a partire dagli anni '30 del Novecento, lo stesso periodo in cui Longhi e Venturi riscoprivano Caravaggio. E del pittore lombardo oggi adorato e smaniato dalle masse, Guercino è quasi un antipode. Il naturalismo più crudo e violento contro una dolcezza che trafigge, l'oscurità che inghiotte al posto di cieli temporaleschi e bruscati, "dove l'aria si abbuia appena" (Longhi nelle ultime battute dell'Officina ferrarese), la terra e la campagna che tornano a sprigionare odori e sensazioni dopo i claustrofobici gorghi caravaggeschi. I due si incontrano senza conoscersi nel casino che il cardinal Ludovisi allestì sugli antichi Horti Sallustiani, locus amoenus che incantò il mondo, titillando le fantasie di Stendhal e Gogol, di Goethe e D'Annunzio, che nelle Vergini delle rocce presagì lo scempio che stava per avvenire nella nuova capitale post-unitaria:

"sembrava che soffiasse su Roma un vento di barbarie e minacciasse di strapparle quella raggiante corona di ville gentilizie a cui nulla è paragonabile nel mondo della memoria e della poesia."

A nulla valse l'opposizione di Gregorovius che scrisse a Busiri-Vici per fermare la lottizzazione del più "bel giardino del mondo".
Ma Giove, Nettuno e Plutone, unica pittura murale di Caravaggio e l'Aurora di Guercino sono ancora là, nel gabinetto alchemico e nella sala dell’Aurora, e nel corso della mostra il casino sarà eccezionalmente visitabile nei fine settimana. E questa mostra romana, curata da Caterina Volpi e Raffaella Morselli, scaturisce proprio dal rivitalizzato interesse per il Casino Ludovisi e dal numero monografico dedicatogli dalla rivista Storia dell'arte nel 2022 (De Luca Editori d'Arte). Il focus della mostra è tutto sul biennio del pontificato Ludovisi (1621-1623), quando Roma divenne succursale felsinea attirando artisti emiliani che affollavano i cantieri cittadini. Dalla smisurata pala che Guercino dipinse per San Pietro appena giunto in città, col seppellimento e la gloria di santa Petronilla, che impressiona il visitatore nell’incipit espositivo (in un’accurata riproduzione), al ritratto di papa Ludovisi proveniente da Los Angeles dell’ultima sala; in mezzo gli schizzi e i disegni squisitissimi per il Casino Ludovisi, quel cranio puzzoso che anche in Arcadia ricorda la finitezza della vita umana (Et in Arcadia ego), grandi tele e opere più piccole, sempre mosse da una passione pittorica che ribolle, da una materia che si agita, da un colore che è pura emozione. Di colore emotivo parlerà Ezra Pound per definire l’ineffabile divino: “non essendosi mai trovata metafora più adatta per certi colori emotivi asserisco che gli dèi esistono” (il blu di Guercino è sicuramente uno di questi). E poi ancora l’Ares Ludovisi, il busto di Gregorio XV di Bernini, prelibatezze di Van Dyck, Poussin e Domenichino che contribuiscono ad arricchire la ricostruzione del contesto dell’era Ludovisi.

Nella prima sala si fa anche la conoscenza del protagonista, con l’autoritratto del Guercino di collezione privata. Evidente il forte strabismo che gli è valso il soprannome, che non ha compromesso il talento ma forse il suo carattere, riservato e schivo, serio e appassionato, poco incline a risse e litigi (ancora in antitesi al Merisi). In un carteggio scrisse all’amico duca Alfonso III d’Este, divenuto frate cappuccino nel 1629 abdicando al ducato estense, che comprendeva le sue ragioni della vestizione del saio, per porsi “lontano dal sinistro rumore delle armi che si stava preparando attorno alle nostre terre”. Il sinistro rumore delle armi si avvicina sempre di più al nostro sordo e orbo Occidente, e quel Mosè trasecolato può farsi immagine di pace, oltre che di “timor dei” (timor dei initium sapientiae), assieme al mite Guercino e alla sua pittura che è tutto un afflato divino e un inno alla gioia e alla vita.