L'Amletico

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I quadri che rappresentano meglio la quarantena

Nel momento in cui il pittore finisce il quadro, esso non gli appartiene più.

Quella visione del mondo e della realtà immaginata e ri-creata dall’artista si trasforma da pensiero a immagine; cessando di esistere solo nella sua mente diviene reale, seppur su due dimensioni. A quel punto l’immagine sarà soggetta ad infinite letture e interpretazioni. Ognuno vi scorgerà qualcosa di diverso e, anche in base al proprio vissuto, percepirà un’emozione a seconda delle corde che quell’opera è riuscita a solleticare. Con ciò non voglio dire che non esista una corretta lettura delle opere d’arte, soprattutto dal punto di vista storico, ma è inevitabile che saremo sempre portati a leggere le opere del passato con l’occhio del nostro tempo. Per questo motivo certi quadri di grandi artisti del passato oggi ci sembrano così attuali. In questi giorni di cattività domestiche, di reclusione forzata, sospesi fra l’attesa e lo sconforto, la paura e la speranza, alcune immagini dipinte nel secolo scorso sembrano calzare a pennello a tal punto che si direbbero realizzate ad hoc.

Ecco allora alcuni quadri che secondo me rappresentano al meglio questa quarantena, messi a confronto con alcuni scatti di queste settimane.

Mistero e malinconia di una strada, Giorgio de Chirico, 1914.

Una città deserta, bagnata da una luce che crea fantasmi e distorce le ombre, quei limiti intangibili del corpo, uniche tracce umane nel paesaggio metafisico per antonomasia. La bambina che gioca col cerchio ricorda una fotografia scattata il mese scorso a Milano, dove un bambino giocava a pallone da solo per la strada. L’edificio porticato sembra appartenere ai ricordi bavaresi del pittore, quando si era formato nella dotta e classicissima Monaco, eppure questa città potrebbe essere ovunque e allo stesso tempo da nessuna parte. Le strade delle nostre città ricordano oggi quelle dechirichiane, anche se prive dell’enigma che gli attribuiva il grande pittore, ma non esenti da una certa malinconia.

 Mattina a Cape Cod, Edward Hopper, 1950.

Le prime luci del mattino illuminano la casa. I raggi solari l’accarezzano timidamente, con dolcezza, trasformando l’azzurrino della vecchia tinteggiatura in un bianco sbiadito. Il prato che circonda la casa è ormai completamente secco, bruciato da un caldo crudele che risparmia solo quei sempreverdi compatti, quel bosco incombente.

Non sappiamo nulla dell’identità della donna. Ella indossa un vestito rosa, come sbiadito dai troppi lavaggi, con un’ampia scollatura ad u che mette in risalto il suo seno generoso. La immaginiamo essersi lavata e vestita dopo aver fatto colazione ed affacciarsi ora in veranda, spalancando le persiane. Guarda fuori dalla finestra appoggiandosi ad un tavolino in una posa tesa come una balestrata pronta a scoccare. L’atmosfera è sospesa, tipica dei dipinti di Hopper che forse come nessun altro pittore è riuscito a rappresentare l’attesa, la desolazione e la solitudine, creando un immaginario così forte da aver influenzato moltissimo anche il cinema (su tutti Wim Wenders che ha realizzato anche un breve corto in suo omaggio dal titolo “Two or three things I know about Edward Hopper”).

In questi giorni è facile immedesimarsi in questo quadro, immaginandoci compiere quel semplice gesto quotidiano, quella proiezione dello sguardo fuori dalla finestra e verso il mondo, unica distrazione e consolazione degli scorsi due mesi.

Ragazza alla finestra, Balthus, 1955.

Ancora una finestra sul mondo. Stavolta la protagonista è una bambina che si appoggia ad una sedia e getta lo sguardo all’infuori. Non le vediamo il volto, eppure la postura ci dice tutto sul suo stato d’animo visibilmente annoiato. Le ore trascorrono lente in un mese primaverile a giudicare dall’abbigliamento e dal verde rigoglioso incorniciato dalla finestra. Il pensiero va immediato a tutti i bambini oggi costretti in casa, privati della libertà e dell’interazione sociale con i loro amici. Lo sguardo di Balthus è però più lieve, dolce e affettuoso rispetto al collega americano, e in questo quadro c’è una serenità che manca in qualsiasi dipinto di Hopper.

 Interno con pianoforte e donna vestita di nero, Vilhelm Hammershøi, 1901

Un interno silente, i piatti vuoti su una tavola mesta e spoglia; è un’intimità raccolta e disperata quella che dipinge Hammershøi, artista danese definito “il pittore del silenzio”. Una donna siede allo sgabello del piano, di spalle, l’abito nero sembra suggerci il colore del suo stato d’animo. Una forte malinconia emerge da quest’opera, che rievoca le piccole scene dipinte da Vermeer alcuni secoli prima. La luce fioca che illumina la stanza non riscalda l’atmosfera che resta algida e scandinava. Forse le note che escono come per magia dalla cassa lignea daranno tepore alla stanza e al corpo della donna. D’altronde anche noi in questi due mesi abbiamo suonato e cantato tutti i giorni affacciati ai nostri balconi, affidandoci alla musica e all’arte come questa donna misteriosa.

L’arte, come abbiamo visto, è sempre contemporanea.