L'Amletico

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"Il malato immaginario" di Molière al Teatro Eliseo: La migliore medicina è la commedia

In scena al: 28 novembre al 17 dicembre

Durata: 2h 15' (compresi intervalli)

Prezzi: da € 20

Regia: Andrée Ruth Shammah

Correva l’anno 2001, andavo in seconda media e la professoressa di Lettere organizzò di portarci a vedere uno spettacolo teatrale. Il titolo non mi diceva nulla e tanto meno l’autore: “L’avaro”, di un certo Molière. Il teatro era piccolo, forse ricavato in un edificio adiacente ad una chiesa, sedevo su una scomoda sedia di legno e all’inizio mi interessava solo poter tornare a casa il prima possibile. Non ho pressoché memoria della rappresentazione di quella sera, ma qualcosa deve avermi rapito. Nello stesso modo in cui le immagini sfocano o svaniscono del tutto, le emozioni ci pervadono e si imprimono su ogni centimetro della pelle: da quella sera alla parola “Teatro” non ho più potuto fare a meno di associare il nome “Molière”.

Sedici anni dopo, nella cornice molto diversa del prestigioso Teatro Eliseo, mi ritrovo proiettato alla prima de “Il malato immaginario”, una delle opere più importanti del grande commediografo – è il caso di ricordarlo – del XVII secolo. Ciò che contraddistingue Molière sta nel fatto che definirlo innovativo risulta inevitabilmente riduttivo: Molière è universale, ha scoperto e messo in pratica la formula magica per la sua commedia. Oggi, leggendo l’opuscolo contenente i saggi che hanno ispirato la regia di una grande Andrée Ruth Shammah, vengo attratto da una frase contenuta in quello di Ramon Fernandez, che spiega alla perfezione il concetto che esprimevo poco fa: “La commedia non era per lui soltanto una disciplina ma una espressione, la sola vera e completa espressione di se stesso. Egli si concepiva e acquistava coscienza di sé nella misura in cui aveva trovato la formula comica dei propri sentimenti”. Il genio, spesso, risiede nell’identificazione viscerale di se stessi con la propria passione.

Foto di Federica di Benedetto

Senza girarci troppo intorno, l’Eliseo ne propone una versione eccelsa. Il pubblico in sala, pur essendo appunto una prima, sembra rendersene conto a priori: nella platea gremita si respira un’attesa palpitante. Quando finalmente le grandi tende rosse del sipario si aprono mostrando a poco a poco il palco, quell’attesa si scioglie, lasciando spazio alla meraviglia suscitata dalla splendida scenografia, elemento di assoluta forza dello spettacolo. Ai lati, un altissimo colonnato sembra proiettarsi fin sopra i confini imposti dal soffitto del teatro, raffigurando efficacemente l’opulenza di un lussuoso appartamento dell’epoca e rendendosi funzionale all’ingresso e all’uscita degli attori dalla scena. Al centro, invece, una grande e fitta tela nera, tesa in una forma geometrica che ricorda le pareti di una stanza, quella sala dove il protagonista, Argan, passa le sue giornate alla mercé della sua ossessione; combinata con un sapiente posizionamento delle luci, la vera funzione di questa struttura si palesa lì dove va a creare un gioco di chiaroscuri, che donano costantemente alla scena l’aspetto di un affresco, anche grazie agli eleganti colori pastello utilizzati nella pittura del colonnato e delle pareti sul fondo del palco. L’insieme risulta così realistico che allo spettatore sembra quasi di intravedere un velo tra il palco e le file di poltrone, oltre il quale ciò che si osserva è una proiezione di una diversa dimensione di spazio e tempo.

La cura maniacale dei dettagli si riscontra anche nella fattura dei costumi; non di rado gli allestimenti moderni di spettacoli della tradizione sottovalutano l’impatto che questi hanno sulla resa stessa della rappresentazione, ma in questo caso risultano impeccabili nella loro ricercatezza. Nel caso specifico di Argan, poi, la vestaglia che indossa dall’inizio alla fine recita in qualche modo un ruolo tragicomico tutto suo, mostrando nella sua assurdità la penosa condizione del personaggio. Così come, al contrario, la ricchezza e la conformità dell’abbigliamento dei medici ne risalta il modo di sentirsi di una categoria superiore agli altri, appartenenti ad un mondo di cui sono i soli a possedere le chiavi.

Venendo all’opera in sé, "Il malato immaginario" porta in scena le vicende di un uomo benestante, Argan (un magistrale Giole Dix, che si cala nel ruolo come se gli fosse stato cucito addosso), convinto di essere affetto da un'infinita varietà di malattie che lo debilitano e lo costringono su una poltrona a rotelle. Affidata interamente la sua vita nelle mani dei dottori, ingurgita o si fa somministrare così tante medicine da avergli dedicato un intero carrello contornato da cucchiaini. Ad assisterlo quotidianamente in questo suo delirio c’è la fidata domestica Antonietta (recitata in maniera divina da Anna Della Rosa), che pur non tradendo il suo compito è in pena per Argan, al quale ha imparato a voler bene, e cerca di ricordargli ogni giorno che quella condizione esiste solo in quanto voluta da lui stesso. Argan ha due figlie, Angelica e Luisona (entrambe interpretate dalla bravissima Valentina Bartolo): la prima, innamorata del giovane Cleante (interpretato con passione da Francesco Sferrazza Papa), subisce la nevrosi del padre, che la promette in sposa al figlio di un parente di un suo dottore solo perché anch'egli medico, convinto probabilmente di poter ottenere prescrizioni e medicinali gratuitamente, pregiudicandole così il vero amore. In un crescendo di situazioni surreali, Argan si ritrova suo malgrado ad essere l’occhio di un ciclone fatto di meschini interessi, questioni di cuore e affetti in bilico, un caos in cui la follia sembra surclassare la ragione. Accecato dall’autocommiserazione, sembra addirittura accettare di pagare l’altissimo prezzo del disprezzo dei suoi cari pur di continuare a seguire le strampalate cialtronerie degli accademici. Fino a quando, approfittando della confusione, Antonietta elaborerà un astuto piano per metterlo di fronte alla dura realtà della finzione del mondo che si è costruito attorno.

Ora, potremmo dunque dire con buona certezza che Argan, più che essere un malato “immaginario”, è un malato “raggirato”. In primis dalla costante truffa a cui lo sottopongono i dottori che lo hanno in cura, che lo hanno assuefatto psicologicamente ai loro intrugli, garantendosi una rendita costante a suo danno. Raggirato persino nell’amore dalla giovanissima moglie Belina (una “odiosa” e simpaticissima Linda Gennari), convinta di aver trovato la gallina dalle uova d’oro, che la renderà ricca una volta passata a miglior vita – epilogo inevitabile e prossimo, a suo credere. Ironia della sorte, verrà tuttavia ingannato, seppur con un nobile intento, anche dalle uniche persone che hanno davvero a cuore la sua salute, nel tentativo di farlo rinsavire e di aprirgli gli occhi sull’unico vero male che lo infetta: l’ipocrisia di chi con una mano lo accarezza, mentre affonda l’altra nelle sue tasche senza scrupolo alcuno.

Molière vuole mostrarci che la patologia di cui soffre l’uomo in quanto tale è la sua debolezza, la sua fragilità morale e fisica contro la quale non c’è rimedio, ma a cui può e deve opporre per il tempo che gli è concesso la medicina dell’amicizia sincera e degli affetti concreti. Non è un caso che non ci venga mostrato né si lasci intendere quando il protagonista incominci a credersi ammalato, è proprio questa la chiave che rende universale la sua condizione, nella quale tutti inconsciamente ci riconosciamo e con la quale siamo inevitabilmente solidali.

Una menzione specifica merita, nell’ambito della versione proposta, il botta e risposta a mo’ di duetto tra Argan e suo fratello, Belardo: un capolavoro nel capolavoro, un passaggio di intensità e spessore che lasciano senza fiato. È uno scontro tra Titani quello che Gioele Dix e l’ispiratissimo Pietro Micci regalano agli spettatori. Ma il motivo che più di ogni altro eleva questo momento al di sopra di tutta l’opera è diverso: Molière fa improvvisamente ingresso in scena, ritagliandosi uno spazio ben preciso per affermare il suo pensiero. Belardo, nel suo tentativo di convincere il fratello della malafede dei medici e di quanto inverosimile sia l’essere affetto da tutti quei malanni, afferra una sedia e dice con fare ammiccante “Perché non usciamo, io e te, e andiamo a vedere una commedia di Molière?”, per poi posarla e sedersi di spalle al pubblico, fronteggiando a pochi passi Argan. A quel punto Belardo è Molière, con le sue perplessità e la sua sfiducia nei confronti della Medicina e dei medici, che accusa di non saperne nulla o comunque molto poco “del funzionamento dell’organismo”, mentre Argan rappresenta l’opinione pubblica dell’epoca, quella della cieca fede nel sapere di chi si fregia del titolo accademico e disposta ad affidarsi totalmente ad essi pur di guarire e scacciare la paura della morte. Belardo/Molière si fa insultare con ferocia e risponde con calma e fermezza, portando avanti la sua tesi secondo la quale la prima cura ai nostri mali siamo noi stessi, con la forza di volontà e la voglia di vivere. Tutto questo affonda le radici nella realtà: la prima assoluta de “Il Malato Immaginario” fu messa in scena nel 1673, l’anno che vedrà la morte del commediografo dopo una lunga malattia contro la quale nulla poterono i medici e le medicine; sempre Ramon Fernandez ci ricorda, inoltre, che appena l’anno prima morì il secondogenito di Molière dopo solo un mese di vita, ennesima crepa nella sua fiducia nella scienza. Un colpo di genio, questo, che si traduce innanzitutto in una vivida testimonianza storica e, in secondo luogo, ribadisce un principio caro a molti grandi del passato e del presente: l’artista come critico del suo tempo. Impossibile non notare il paradosso per cui all’epoca nessuno poteva osare discutere le parole e il sapere dei medici che, come detto, ne sapevano oggettivamente poco anche per l’inesistenza di strumenti di ricerca idonei, mentre oggi, che la scienza ha fatto passi da gigante e basa le sue conclusioni su dimostrazioni empiriche supportate da avanzate tecnologie, si assiste ad una sfiducia crescente nella medicina ed un utilizzo sempre più diffuso di metodi di cura “alternativi”. Viene da chiedersi cosa ne penserebbe Molière.

L’opera si chiude come si era aperta: il sipario cala su di un Argan solo, in vestaglia sulla sua poltrona a rotelle, ma stavolta con un sorriso sul volto che sa di rinascita. Passa quell’attimo in cui tutti realizzano di aver visto un grande spettacolo e finalmente arriva il meritatissimo scrosciare di applausi per gli attori e la regista, che sale sul palco e racconta, in una gradita improvvisazione, di come questo allestimento venga messo in scena da più di 30 anni, nell’arco dei quali Piero Domenicaccio non ha mai mancato di vestire i panni del Dottor Fecis e che ha visto impegnato lo stesso Gioele Dix, negli ’80, nel ruolo di Cleante. Usciamo e, guardandomi intorno ed ascoltando i fugaci commenti che si perdono nell’aria, mi accorgo che forse Molière ci aveva appena somministrato una buona dose della sua personale medicina per la felicità; mentre mi incammino sotto la pioggia, negli stretti vicoli del centro di Roma, penso anche al piacere che sa infondermi ogni volta l’atmosfera del Teatro: in questo no, non c’è niente di immaginario.

Foto di Federica di Benedetto

Gradimento Autore: 9.5/10 (Regia: 9.5/10; Interpretazione: 9.5/10; Scenografia: 10/10)

Regia: Andrée Ruth Shammah

Interpreti:

Argan - Gioele Dix

Antonietta - Anna Della Rosa

Beraldo - Pietro Micci

Angelica e Luisona - Valentina Bartolo

Professor Fecis - Piero Domenicaccio

Belina - Linda Gennari

Tommaso Purgone - Francesco Brandi

Professor Purgone - Marco Balbi

Cleante - Francesco Sferrazza Papa

Dottor Aulenti e Signor Buonafede - Alessandro Quattro