In ricordo di Pasolini: i suoi film più belli
Dalla brutale (e misteriosa) scomparsa, sono passati ben 45 anni, e l’intellettuale organico, provocatore e “corsaro” ci lascia un’ opera omnia amplissima, che si muove dalla poesia alla narrativa, passando per la saggistica e il cinema. Qui ripercorriamo la carriera del Pasolini regista, attraverso otto pellicole che significativamente tracciano i vertici di una carriera tormentata, fatta di picchi altissimi e inquietudini abissali, nella forsennata ricerca di una “verità” capace di conciliare le contraddittorie istanze del suo essere, diviso fra erudizione elitaria e passione popolare.
Accattone (1961)
Debutto alla regia per lo scrittore friulano, Accattone è la trasposizione cinematografica dei suoi romanzi scandalosi Ragazzi di vita e Una vita violenta. Il film racconta le vicende del sottoproletario Vittorio Cataldi, l’Accattone magistralmente interpretato da un iconico Franco Citti, che vaga fra il centro e le borgate romane sfruttando la prostituta Maddalena, e innamorandosi poi di Stella. Accattone cerca la redenzione, ma il suo destino è tragico. Un esordio col botto per il regista: durante la prima al cinema Barberini di Roma un gruppo di neofascisti cerca di impedire la proiezione lanciando bombe carta e bottiglie di inchiostro contro lo schermo. La pellicola doveva essere prodotta da Fellini, che si tirò indietro all’ultimo per l’inesperienza di Pasolini. Un film di culto in particolare per i romani e per tutta la scena Hip-Hop della capitale visti i continui omaggi e le citazioni.
Mamma Roma (1962)
Anna Magnani è Mamma Roma, una prostituta che decide di cambiare vita e di offrire un futuro migliore al figlio Ettore. Sulla scia del primo film, Pasolini riprende la tematica del riscatto sociale e della redenzione, partendo da un fatto di cronaca, quella tragica morte del diciottenne Marcello Elisei avvenuta nel carcere di Regina Coeli dopo due giorni di agonia, durante i quali era stato legato e lasciato senza acqua e cibo. A discapito del tema e del finale, ancora una volta ineluttabilmente tragico, nel film si ride e ci si diverte, grazie alla Magnani che giganteggia con la sua risata e il dialetto inconfondibile. Squisitamente pittoriche certe scene, su tutte quella finale della morte di Ettore, erroneamente accostata a Mantegna e smentita dallo stesso Pasolini che dirà di essersi ispirato di più a Masaccio e Caravaggio.
Il vangelo secondo Matteo (1964)
Lasciandosi alle spalle i primi film ancora in parte sul filo del Neorealismo, con quest’opera Pasolini sceglie un tema cristiano (da ateo), narrando la vita di Gesù secondo il vangelo di Matteo. Come sempre il pubblico e la critica si dividono: c’è chi grida allo scandalo e al vilipendio della religione, e chi invece applaude il regista gridando con altrettanto clamore al capolavoro. Gerusalemme si incarna in Matera, allora ancora fortemente arretrata e intatta, e Cristo viene battezzato nel viterbese anziché sul Giordano. Fra i vari attori non professionisti spiccano però alcune figure di intellettuali amici del regista, come Natalia Ginzburg, Alfonso Gatto e il giovanissimo Giorgio Agamben. Frai capolavori di Pasolini e definito da Scorsese, che oltre vent’ anni dopo si cimenterà con lo stesso argomento in L’ultima tentazione di Cristo, “il miglior film su Cristo”.
Uccellacci e uccellini (1966)
Il film più importante per Pasolini, o meglio, quello da lui più amato. Protagonista a sorpresa è Totò, che il regista volle fortemente per la sua maschera tragica e quella capacità di straordinaria mimica facciale (“Totò ricca statua di cera” disse Pasolini). Fu l’ultimo film realizzato dall’attore napoletano, che interpreta il padre di Ninetto Davoli. I due vagano per le periferie e i dintorni di Roma accompagnati da un corvo parlante, un intellettuale di sinistra filo togliattiano, che narra loro la storia dei frati Ciccillo e Ninetto (interpretati da loro stessi). I due frati hanno ricevuto il compito da San Francesco di predicare ai falchi e ai passeri; assistiamo così a scene memorabili del duo Davoli-Totò che vestono il saio francescano. Molte scene sono girate nella suggestiva cornice di Tuscania e di Assisi; il che contribuisce, insieme alle musiche di Morricone (che arrangia anche Mozart e Modugno), a dare un’identità unica alla pellicola. Una moderna favola dal gusto comico e grottesco che ebbe un grande successo di critica ma uno scarso risultato al botteghino.
Edipo re (1967)
Un’opera decisamente eclettica, che si pone all’inizio di una lunga serie di sperimentazioni formali contraddittorie e disomogenee. L’Edipo re in fondo è questo: un pastiche che non è solo un’accozzaglia (ad essere volgari) di costumi e scenari che oscillano dalla povera semplicità al fasto dozzinale, ma anche una dichiarazione di intenti che nell’imperfezione rivela una grande varietà e ricchezza di futuri orientamenti. Esperimento quanto mai fertile, infatti, dove una forte componente autoriale (emergente al termine dell’ascetismo del modello neorealista) dialoga con un’altrettanto forte componente autobiografica. L’ibridazione culmina ulteriormente con l’intersezione del piano della realtà mitica/storica con quello dell’attualità della scena politica italiana degli anni Sessanta. Rileggere la scabrosa sessualità dell’Edipo negli anni delle rivolte studentesche, dove le teorie di Herbert Marcuse proponevano un nuovo dialogo fra forze libidiche e forme sociali, significa far dialogare la psicanalisi col marxismo, uniti a una ingenua - ma necessaria - dose di utopismo. Pasolini, insomma, sempre più impegnato nel suo ruolo di intellettuale organico, si prepara a realizzare la sua Medea.
Teorema (1968)
Un film dal forte valore storico e simbolico, che riteniamo essere ancora godibile, seppure risulti decisamente datato. Mettendo nuovamente da parte gli stilemi neorealisti e gli (allora) scabrosi soggetti prelevati da contesti sociali subalterni, Pasolini realizza un dramma borghese di grande eleganza e intelligenza. La trama mostra un fascinoso e ambiguo ragazzo che si introduce nella vita di una ricca famiglia milanese, perturbandone profondamente gli equilibri. I modelli di riferimento arrivano da una certa cultura estetica-decadente che elegge Giorgio Bassani quale proprio principale interprete, inaugurando una serie di pellicole tese a radiografare (e criticare) dall’interno ambienti altolocati, con sguardo compiacente e disilluso, più o meno complice. Viene in mente in questo senso Gruppo di famiglia in un interno (1974) di Luchino Visconti. L’opera di Pasolini, infatti, si configura di natura squisitamente politica, impegnando la figura del bello straniero, incarnazione di Dio, quale catalizzatore di tutte le pulsioni sessuali latenti del raggelato gruppo familiare. Complice la blasfemia, oltre la ricercatezza formale - che funziona come un vero e proprio schermo - emerge una dimensione “sotterranea” decisamente più criptica, che ha origine nel retroterra popolaresco-arcaico (apparentemente rinnegato, ma visceralmente amato) che conduce la narrazione dal realismo iniziale al simbolismo terreo e dolente che caratterizza la cifra poetica del regista, inseguendo un ideale di trascendenza impossibile.
Medea (1969)
Immersione, carnale e sensoriale, in un universo arcaico e dimenticato, nella sua Medea Pasolini affida il ruolo di protagonista di uno dei suoi film più celebri e risusciti a una interprete d’eccezione: Maria Callas. Splendida, seppure non sempre a suo agio, la Divina (qui strega e sciamana) incarna una donna profondamente divisa fra un mondo primordiale, quello delle sue origini, fatto di dialogo e integrazione totale fra arte e natura, e il regno artefatto della polis greca, quello di Giasone, basato sull’alienazione e il rinnegamento dei valori più autentici e genuini dell’uomo. Ma il dramma non è solo quello di una donna, benedetta/maledetta dall’amore, ma anche quello di una società sempre più scissa e impossibilitata a ritornare a una (presunta) primigenia unione. Tutto questo emerge chiaramente nella scena del centauro Chirone, anacronisticamente girata nella piazza dei miracoli di Pisa, che costituisce il momento più alto di questo film brullo e terroso, che recupera la “bruttezza” formale dell’Edipo re per conferirgli un livello di complessità ulteriore. Quello che prima era abbozzo ora si fa ricostruzione antropologica preziosa e volutamente infedele, in cui un’autorialità fortemente rivendicata conduce la tragedia di Euripide a esiti parimenti distruttivi.
Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975)
Opera celeberrima e che definire controversa risulta riduttivo. Nella aurorale (ma già morente, forse rosa da un cancro mostruoso) Repubblica di Salò, l’inferno sadomasochistico del Divin Marchese prende vita nelle forme più perverse e spettacolarizzate. Rileggere Sade, la sua opera più lunga e tortuosa, non risulta qui un mero pretesto, ma un modo per intrecciare e dipanare il filo rosso che unisce sesso e potere, pornografia e erotismo, intellettualismo e provocazione. Colte riflessioni filosofiche fra uomini e donne volgari si intervallano a scene ripetitive e umilianti di tortura più o meno castranti, decisamente poco eccitanti. È, infatti, il nefasto fascino del fascismo, come individuato precocemente da Georges Bataille, che qui viene reso integralmente nella sua pienezza miseranda e tentacolare, nelle tracce sanguinanti delle sue rovinose conseguenze etiche e spirituali. Una “cultura della morte” trova in questo film un manifesto, un’estetica vera propria che si è impressa profondamente nell’immaginario di una generazione, e che gli alterni fenomeni di censura hanno presto fatto entrare nell’albo della cinematografia maledetta.
A cura di Claudio Sagliocco e Mattia Cucurullo