Juliana Buhring, in bici oltre ogni limite
Sapreste riconoscere il detentore di un Guinness World Record mentre siete in vacanza?
Nella meta più mondana della Costiera Amalfitana, la bella e colorata Positano, si aggira confondendosi con i turisti una donna alta e sportiva in sella ad un motorino elettrico. L’accento marcatamente anglofono porterebbe a scambiarla per l’ennesima americana in vacanza nel Belpaese, ma in realtà si tratta di una persona totalmente fuori dal comune: parliamo di Juliana Buhring.
Ciclista e scrittrice di fama internazionale, Juliana è nota soprattutto per la sua impresa in bicicletta in giro per il mondo che le è valsa il record mondiale.
Abbiamo avuto la fortuna di incontrarla proprio a Positano (dove vive) e di poterle fare qualche domanda.
Ciao Juliana. Perché la bicicletta e com’è nata l’idea di fare il giro del mondo?
È nato tutto per caso, io non avevo mai praticato sport, né tanto meno ero una ciclista. Ho perso un mio caro amico, che era un esploratore del Sudafrica, in un incidente con un coccodrillo durante un’esplorazione in kajak. A quel punto, stando molto male, capii che dovevo superare questo trauma facendo un’esperienza molto forte. Lui mi aveva promesso di partire per un viaggio avventuroso insieme, così ho deciso di farlo lo stesso, da sola. Durante una celebrazione in suo ricordo un’amica mi ha proposto di attraversare insieme tutto il Canada in bici: la meta non mi interessava, essendoci già stata, ma l’idea di misurarmi con una cosa che non avevo mai fatto mi incuriosiva molto. Cercando in internet trovai questi giri del mondo in bicicletta che erano stati realizzati solo da uomini, e mi sono chiesta perché nessuna donna lo avesse fatto prima. Mi sembrava strano. Allora mi sono decisa di tentare l’impresa.
Com’è avvenuta la preparazione?
Avevo bisogno di una bici e uno sponsor interessato a sostenere il mio progetto. In quel periodo vivevo a Napoli, dove mi allenavo con una comune bicicletta, percorrendo ogni giorno almeno 120 km. Dopo qualche tempo, ne scelsi una nuova più adatta al mio obiettivo e incontrai quello che sarebbe diventato il mio allenatore, Perna. Inizialmente era scettico, ma era rimasto colpito dal fatto che una donna avesse deciso di raggiungere un traguardo simile. Dopo otto mesi decisi di voler partire perché mi sentii abbastanza pronta e forte fisicamente. Avevo aspettato fin troppo.
Con la testa eri già partita!
Si, perché mentalmente non c’ero. Non mi importava il risultato, era diventato necessario. Se avessi avuto una vita normale in quel periodo non sarebbe stata la stessa cosa.
È stata una fuga questo viaggio?
All’inizio sì. A metà del tragitto, guardandomi indietro, ho capito quello che avevo realizzato, che era diventata una cosa veramente importante. Piano piano ho cominciato a cambiare mentalità, ed ho incontrato tante belle persone, che seguendomi sui social mi hanno sostenuta anche economicamente, attraverso donazioni. Sono partita con un budget limitato (duemila euro), una volta finiti i soldi scrissi sui social che la mia esperienza finiva lì: già dal giorno dopo sono iniziati ad arrivare dei finanziamenti. Sapete chi ha contribuito alla raccolta fondi iniziale prima che partissi? Marek Hamsik!
Ma dai! L’ex calciatore del Napoli?
Sì! L’ho incontrato in una discoteca (mi trovavo lì per raccogliere soldi per la mia impresa). Gli ho spiegato il mio progetto e lui non ha esitato: ha aperto il portafogli e mi ha dato trecento euro.
Quando sei partita e da dove?
Il viaggio è iniziato il 23 luglio del 2012 da Napoli, da piazza del Plebiscito per l’esattezza, e nello stesso posto si è concluso circa cinque mesi dopo.
Solo cinque mesi?!
152 giorni totali, di cui 144 in sella, per un totale di 29.000 km percorsi in 4 continenti e 19 paesi.
Incredibile! Per dove sei passata?
Da Napoli sono andata verso la Francia, poi Spagna, Portogallo, da Porto ho preso l’aereo per gli Stati Uniti dove ho fatto da Boston fino a Seattle. Da lì ho preso l’aereo per la Nuova Zelanda, poi l’Australia, dove ho percorso tutta la costiera fino a Perth (7000km attraverso quel deserto). Dall’Australia sono andata a Singapore e ho fatto tutto il Sud Est asiatico, salendo per la Malaysia, la Thailandia, arrivando all’India che ho percorso tutta (l’esperienza peggiore del viaggio, sono stata malissimo per la dissenteria). Man mano sono risalita passando per il Medio Oriente.
Cosa ti sei portata con te in viaggio?
Sono partita leggerissima. Un pacco sotto la sella, una borsa sotto al telaio e un altro zainetto. Ho portato solo un cambio di vestiti e poi crema solare e le cose per l’igiene personale. Ovviamente poi tutto il materiale per riparare la bici, che costituiva il peso maggiore.
È stata soprattutto una sfida personale per misurarti con i limiti? Dove hai trovato la forza?
Non lo so, io sono una “capatosta”, sono nata così (ride ndr). Non mi è mai venuto in mente di mollare, se comincio una cosa devo finirla, anche se ho pensato più volte “ma cosa sto facendo?”. Una volta finito il viaggio mi sono interrogata su quali fossero i miei limiti. Prima di partire chiaramente non avevo mai pensato di poter fare una cosa del genere, e una volta realizzata l’impresa ho pensato “ok, e ora?" Cos’altro posso fare?”. Un amico a quel punto (Mike, l’uomo che aveva realizzato la stessa impresa al maschile, mettendoci appena 100 giorni) mi chiese di partecipare ad una gara, la Transcontinental che andava dal Belgio ad Istanbul. All’inizio non mi andava di gareggiare, non mi interessava, ma poi la pensai come un’avventura. Lì ho superato ulteriormente i miei limiti, e mi sono resa conto che potevo pedalare un numero enorme di chilometri in una sola giornata (anche 300 km). Man mano scoprii che potevo spingermi sempre oltre, e così in una tappa ne feci 400, fino ad arrivare l’anno seguente a compierne 800 in un'altra gara (in 36 ore consecutive). A proposito di limiti poi, in una gara lungo le montagne degli Stati Uniti feci una brutta caduta e mi ruppi le costole e mi distrussi le ginocchia. Decisi di continuare. Presi degli antidolorifici e mi feci tutta la gara con le costole rotte. In quella gara ho scoperto che la testa può controllare il corpo. Arrivai prima fra le donne e quarta in totale (nonostante le fratture).
A quanto pare tu non hai proprio limiti! (Si ride)
Viaggiando da sola ti sei mai sentita in pericolo?
Sì, lo sono stata. Ho rischiato di morire più di una volta. Mi trovavo in Nuova Zelanda nella Desert Road (una strada di 200km in un deserto), in una zona dove non c’è nulla e il clima è freddissimo con venti davvero forti, non avevo le mappe e non c’era campo per il telefono. Percorsi circa 130km in salita, non avevo cibo e avevo solo una bottiglia d’acqua, quando calò il sole venne un vento freddo che non mi permetteva di pedalare più. Passarono un paio di camion a cui chiesi aiuto ma nessuno si fermò. Non sapevo dove dormire, avevo fame ed ero esausta, pensavo che sarei morta. Ad un certo punto vidi in lontananza un Camper con due signori anziani che stavano lavando i piatti. Allora andai a bussargli e a chiedere aiuto. Per fortuna mi ospitarono dentro, mi diedero del whisky per scaldarmi e qualcosa da mangiare. Anche se si sarebbero dovuti rimettere in moto in direzione opposta si fermarono là per la notte, mi fecero dormire nel camper e la mattina seguente ripresi a pedalare. Sono stati stupendi, mi hanno salvato. Hanno seguito il mio viaggio sui social e siamo rimasti in contatto negli anni.
Sei rimasta in contatto con molte persone incontrate lungo la strada?
Sì, mi capita ancora di scrivermi con la gente che ho conosciuto durante questa esperienza. Essendo una donna in viaggio da sola in tanti volevano aiutarmi.
Quando tu sei in sella e pedali ti guardi intorno oppure sei completamente concentrata?
Mi guardo intorno, perché la gara deve essere interessante anche per quello che vedi. Voglio vedere le cose più belle del paese con la bicicletta, come ho fatto in Oman.
In bicicletta passi tanto tempo con te stessa. A cosa pensi? Ascolti della musica?
Ascolto musica solo in zone tranquille dove non ci sono macchine, oppure la notte per tenermi sveglia. Ascolto più spesso gli audiolibri, specie quando passo in zone noiose. La scelta cambia in base al mood.
Hai mai fatto gare in compagnia? O è sempre un viaggio solitario?
Le gare no, sono solo in solitaria. Con Vito, il mio compagno, ho fatto diversi viaggi perché anche lui è appassionato. Facciamo sempre un viaggio in qualche paese, ogni anno. Vietnam, Corsica, Spagna, Terra del fuoco, passando per la le Ande.
Il posto più bello che hai visto viaggiando in bicicletta?
È una domanda molto difficile. Mi faccio molto influenzare dalle persone. In Turchia ho trovato delle persone meravigliose. Tuttavia, hanno i cani peggiori del mondo (i pastori dell’Anatolia!). Una volta mi accerchiarono mentre stavo per strada in bicicletta. Sono terribili, si comportano come un branco di lupi. Una macchina che passava, vedendomi in pericolo, ha suonato il clacson, per poi investirne uno. Anche lì ho rischiato grosso.
Ti senti un po’ un’esploratrice? Tipo Alex Bellini e questi esploratori del ventunesimo secolo.
Vivo avventure sicuramente. Tutto può succedere sulla strada. Però non mi definirei un’avventuriera… c’è voluto tanto per considerarmi una ciclista!
Qui in Italia dove ti alleni?
In estate, quando c’è molto traffico, percorro la penisola sorrentina. Oppure faccio zone interne tipo Agerola. La costiera è bella d’inverno, i turisti sono pericolosi quando guidano in estate, essendo la strada piena di curve e precipizi.
Come sei arrivata a Napoli?
Ho insegnato inglese in due scuole, a Barra e Afragola (rispettivamente un quartiere periferico di Napoli e un comune della città metropolitana di Napoli ndr). Ho vissuto lì cinque anni. È stato divertente perché io non parlavo italiano e i miei studenti non parlavano inglese, ma nemmeno italiano! (si ride ndr). È stato molto difficile e spiazzante all’inizio. Ci sono voluti quattro mesi, ma alla fine ho portato i miei studenti dal livello “zero” a pre-intermediate. È stata un’impresa.
Fantastico! Deve essere stato quasi un esperimento antropologico, vedere come funziona la comunicazione e come si può lavorare in condizioni così difficili.
Si, ho usato un metodo molto lontano da quello italiano per insegnare, basato sulla pratica e l’immaginazione. Per esempio, i ragazzi non conoscevano neanche Napoli! Vivano nel loro quartiere, invece io volevo fargli vedere anche che il mondo è bello là fuori.
Anche la bicicletta può essere un modo per imparare?
Il viaggio in generale è una cosa adatta per aprire la testa, per provare cose nuove e non avere paura. Anche perché la vita è così, le cose arrivano all’improvviso e bisogna essere flessibili per cambiare senza lasciarsi vincere dalla paura, dal nuovo.
Sappiamo che hai iniziato anche ad organizzare delle competizioni in bici, come la Gara dei due vulcani (dal Vesuvio all’Etna).
L’ho ideata io perché le gare di ciclismo sono sempre in nord Italia, e volevo che venisse riscoperto questo percorso molto scenografico e che si portasse la cultura della bici anche al sud. La gara dei due vulcani inizia con una visita al museo di Ercolano. Alla fine c’è una festa fatta di cibo e vino fresco nel museo dell’Etna. Quindi due musei, alla partenza e al termine.
Quante edizioni ci sono state?
L’anno scorso c’è stata prima edizione, quest’anno la facciamo in Autunno, il 18 Ottobre.
In bocca al lupo allora, per questa e per le prossime avventure. Chissà quante altre imprese hai in serbo…
Staremo a vedere!
Intervista a cura di: Claudio Sagliocco, Mattia Cucurullo e Letizia Giardini.