L'Amletico

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La Famiglia di attori ed ex detenuti della regista Valentina Esposito

"Cesare deve morire" dei Fratelli Taviani, "Non essere cattivo" di Claudio Caligari, "Suburra" di Stefano Sollima e molte altre partecipazioni a produzioni cinematografiche e televisive. Non mere illusioni, ma sogni che sono diventati realtà per gli ex detenuti o detenuti in misura alternativa che fanno parte del progetto Fort Apache Cinema Teatro, progetto che nasce nel gennaio 2014 grazie all’idea di Valentina Esposito, autrice e regista impegnata da oltre un decennio nelle attività teatrali all’interno del Carcere di Rebibbia N.C. a Roma.

Dal 16 al 20 gennaio gli attori saranno in scena al Teatro India con lo spettacolo Famiglia. Abbiamo approfondito i temi toccati dalla rappresentazione con la regista Valentina Esposito.

L’incontro con i familiari rievoca spesso antichi dissapori. Può essere il matrimonio, un momento presumibilmente felice, fonte invece di conflitti?

Ho immaginato che la complessità dei rapporti delle dinamiche familiari potesse trovare nel momento rituale una dimensione possibile di espressione. La cerimonia  è solo un pretesto funzionale a mettere in relazione personaggi e dare voce ai nodi conflittuali irrisolti, personaggi in bilico tra la vita e la morte, la gioia e la sofferenza, i ricordi del passato e il presente di in un matrimonio che è allo stesso tempo un banchetto funebre. “I matrimoni, si sa, sono sempre anche degli addii….”

Con Fort Apache cercate di portare ex detenuti nel mondo dello spettacolo affiancandoli ad attori professionisti. È difficile gestire questi rapporti oppure è il contrario di quanto si possa immaginare?

L’incontro con attori e danzatori è stato ed è particolarmente interessante dal punto di vista della contaminazione artistica e della specializzazione professionale di attori con una pratica diversa di approccio al linguaggio teatrale, personale e radicata nel vissuto, distante dalla formazione accademica tradizionale. L’esigenza di creare un terreno comune di lavoro e un linguaggio scenico condiviso ha promosso nuove strategie di avvicinamento ai personaggi e alla messa in scena, in una terra di mezzo tra le forme tradizionali e quelle del teatro sperimentale a vocazione sociale.

Fort Apache è un luogo isolato che resiste in territorio ostile. Si può definire anche la vostra un’esperienza di resistenza contro i pregiudizi comuni?

Certamente il confine tra il dentro e il fuori non è solamente la linea sulla quale si fa pratica di resistenza al richiamo dei contesti di origine degli attori ex detenuti e all’attrattiva del ritorno al crimine; è anche il terreno decisivo nel quale cercare di ricostruire una falsa visione del carcere come luogo di espiazione fine a se stesso. Lavorare sullo sguardo è il piccolo contributo che chi ha a che fare con le arti visive e performative può dare per costruire nuove prospettive culturali condivise sul senso della pena.

Tra i vostri attori anche Marcello Fonte, che ha vinto il premio come miglior attor protagonista per il film Dogman. Il vostro teatro premia la naturalezza delle espressioni?

Le metodologie specifiche del Teatro Sociale mirano a stabilire un legame diretto tra espressione artistica ed esperienza di vita, a promuovere un lavoro che si svolge sempre in un terreno ibrido dove la vita reale e l’invenzione scenica si intrecciano all’interno di un vicenda tesa fra l’essere, il rappresentarsi e il rappresentare. In questo senso la naturalezza e l’autenticità degli attori ha radici in un processo creativo che parte dai preziosissimi contributi biografici degli interpreti per diventare drammaturgia.

Lei ha scritto “questi attori usano il teatro per colmare una distanza”. Quanto incide nelle loro interpretazioni il peso del passato? Il palcoscenico è un luogo di redenzione, di riavvicinamento?

Il passato è sicuramente la dimensione da attraversare per provare a ricostruire l’identità e le relazioni familiari e sociali. E’ l’ombra che rende spesso invivibile il presente, quello degli interpreti come quello dei personaggi. Nel corso degli anni questi attori hanno imparato ad utilizzare la pratica teatrale come uno strumento di elaborazione e riflessione, come una possibilità per trasformare lo sguardo degli altri e la percezione di sé, con difficoltà, con fatica, con sforzo quotidiano. Il palcoscenico è il luogo della battaglia, che a volte si vince e a volte no.