L'Amletico

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La Commedia della Vanità: perdere se stessi e la propria immagine

Seduto sulla poltrona. Lo sguardo rivolto verso il palcoscenico. Quando l’attore lo affianca si sorprende. E prima di prendere la piccola palla che gli viene offerta temporeggia. “Mira e tira!”. Davanti a lui ci sono solo specchi. “Su, avanti, tira!”. Lo spettatore coinvolto esita, si guarda attorno, ma poi decide di distruggere lo specchio. Di cancellare la sua immagine. 

E così anche le altre persone del pubblico e i protagonisti dello spettacolo La Commedia della Vanità. “Lo spaventoso dilagare della vanità in tutti i settori della vita pubblica e privata”, recita il Proclama letto dal banditore, “non è più tollerabile”. Tutti gli specchi e le immagini di se stessi devono essere cancellate. Bruciate dentro un grande fuoco. 

Le fotografie diventano merce rara, oggetti per la borsa nera. Siamo intorno agli anni Venti, è finita la prima guerra mondiale, ma di battaglie nello spettacolo non se ne parla. Si tratta invece dell’oppressione di una dittatura che brucia le immagini – come Hitler obbligava a gettare nei roghi i libri stranieri – e mette al bando gli specchi per cancellare il proprio ego. “L’astinenza da immagine induce al dissolvimento dell’io”, si legge nelle note del regista Claudio Longhi, “ma questo dissolvimento esaspera, per converso, il bisogno di io - aprendo la strada a sbandamenti populistici e autoritaristico-dittatoriali”.

Ed è subito dopo la lettura del Proclama che fa ingresso sulla scena l’insegnante Fritz Schakerl, uno capi del quadrunvirato che governa il regime. Simone Francia – che lo interpreta – pesta il palco brutalmente con i suoi stivali neri dal tacco alto. Imponente, curvo e ingobbito, questo moderno Frankenstein ostenta il suo potere e cerca chi vìola le regole, ma finisce anche lui per essere vittima della “malattia dello specchio”. 

Muto e immobile davanti a una cornice vuota, non riesce più a vedersi, a comunicare con l’immagine di se stesso. Come per gli altri 23 personaggi che popolano il palco, la conoscenza della sua persona passa ormai solo attraverso l’immagine riflessa negli occhi degli altri. Ma questo non basta. Non è sufficiente per completarsi, per avere un’identità. Servitori, potentati, ricchi e disagiati, tutti cercano il proprio volto. Basta il grido “una pozzanghera!” che l’intera popolazione si muove verso la superficie riflettente per ritrovarsi. 

Troppo poco spazio, però, per vedersi. Il senso di straniamento diventa sempre più forte. C’è bisogno di una cura. Si forma allora un serpente di attori che si muove tra la platea e si ferma davanti al palco formando una lunga fila. Sono in attesa di essere ammessi al sanatorio, un edificio pieno di specchi. Finalmente le persone hanno la possibilità di vedersi, ma non necessariamente quella di riconoscersi. 

Dura tre ore e quarantacinque minuti lo spettacolo ideato da Claudio Longhi. Non poco. Ma se fosse stato messo in scena per intero, sarebbe dovuto durarne sette di ore. Tempi a cui il pubblico non è abituato: nel primo intervallo molti spettatori se ne vanno e anche nel secondo sono tanti quelli che lasciano il proprio posto. “Diversi si sono lamentati”, dice un’addetta ai lavori, “hanno chiesto perché questo spettacolo fosse stato inserito nell’abbonamento”. Prima dell’inizio dello spettacolo, una signora si avvicina alle amiche e le rassicura: “Il primo atto non è molto bello, ma il secondo si anima, poi il terzo va assolutamente visto. Rimanete fino all’ultimo!”. Ma non c’è un atto riuscito meglio e uno invece peggiore degli altri. C’è un tema complesso, come quello dell’identità, che viene affrontato nelle sue varie declinazioni. E per farlo il regista Claudio Longhi opta per un coinvolgimento costante. Gli attori si affacciano dai palchetti, passano tra le poltrone e urlano dal loggione. Tutto si muove, ruota e trasforma. Tutto è in movimento, come il palco: un immenso circo con dentro una gabbia. Perché la dittatura imprigiona, tratta le persone come delle bestie, ed è per questo che uno dei capi è vestito da domatore di leoni. 

La dittatura che priva della propria immagine è la peggiore. Ma anche quella degli specchi a cui siamo sottoposti oggi è da temere. Siamo davanti a uno schermo per gran parte della giornata. Vediamo la nostra immagine riflessa. Scattiamo foto. Selfie. Istantanee. Siamo fuggevoli, rapidi, volatili. Rischiamo di essere attaccati troppo alla nostra immagine e di perdere invece il valore di quella degli altri. Chi si specchia nei nostri occhi, allora, non vedrà più un altro se stesso. Ma il vuoto. E avrà paura. E noi di lui.