Intervista a Matteo Trevisan: cose da raccontare che provi a mettere giù
Quando nel tardo pomeriggio varco la soglia del Circolino della Malpensata, storico locale popolare di Bergamo Bassa, Matteo Trevisan è già arrivato. Mentre ci accomodiamo sulle panche del cortile interno con due birre, un registratore e un posacenere ad arredare il tavolo, non posso fare a meno di notare che Matteo indossa ancora la divisa DHL: decisamente appropriato per un cantautore che nelle sue canzoni si misura costantemente col tema del lavoro. È un argomento che mi ero già ripromesso di toccare, ma partiamo dall'inizio.
L’Amletico: Come ti introdurresti a un ascoltatore che non ti conosce e che magari non ha familiarità con la scena musicale di Bergamo?
Matteo Trevisan: Ciao, sono Matteo Trevisan e faccio il cantautore…così. Mi sono messo a scrivere delle canzoni, sembrava funzionassero, le ho fatte ascoltare, qualcuna è piaciuta e hanno detto “ok, si può fare”: pubblichiamo un disco e facciamo concerti.
L’A: E quando è stata la prima volta che ti sei detto “Ehi, sto scrivendo una canzone!”?
MT: Sono tanti anni che suono…quando suoni di solito fai una band poi inizi a fare le cover del tuo gruppo preferito - nel mio caso i Clash - e poi provi a scrivere la tua musica. Nel 2013 ho iniziato a scrivere delle canzoni che mi sembrava avessero potenziale, in modo particolare in italiano. Prima avevo scritto canzoni in inglese ma - magari sbaglio - secondo me i musicisti italiani dovrebbero scrivere in italiano. Io ho ascoltato soprattutto musica in inglese, però l’italiano se funziona è molto più “potente”. Poi certo, ho scritto anche tante canzoni brutte nella vita, o che non mi piacciono.
L’A: Su dieci canzoni che ti capita di scrivere, o di averne l’idea, quante poi finiscono a prendere una forma definita?
MT: Eh, non tante. Io scrivo costantemente perché ormai suono tutti i giorni e quando suono lo faccio per scrivere. Niente di particolare, si parte da giri di accordi oppure da idee, cose da raccontare che provi a mettere giù. Poi le registri e vedi se funzionano e spesso non funzionano!
L’A: Sei partito da scrivere canzoni più vicine al punk rispetto ad adesso?
MT: No, le prime canzoni le ho scritte in italiano già nel 2013, uscivo da una relazione molto passionale e coinvolgente, una di quelle cose burrascose in cui quando ci sei dentro non capisci più niente. Finita questa storia, non so se ti è mai capitato, insomma quando perdi il senno come l’Orlando Furioso…ho scritto queste canzoni e poi le ho fatte ascoltare ad alcuni amici tra cui Riccardo Zamboni, gestore della sala prove del Polaresco [lo Spazio Polaresco è centro culturale/di aggregazione/sale prova e concerti/bar e bistrot situato a Bergamo nel quartiere di Longuelo], e Maurizio Bonfanti che con Riccardo aveva l’etichetta Fumaio Records. A loro sono piaciute e abbiamo fatto questo primo EP [Zero / Tredici, Fumaio Records].
L’A: E qual è stato il primo concerto che hai fatto come “Trevisan”?
MT: Il primo concerto l’ho fatto proprio al Polaresco di supporto a Il Garage Ermetico [band locale post-punk dove suonava appunto Maurizio Bonfanti] nel 2013. Poi da lì ho iniziato a scrivere altre canzoni. Una volta che trovo “la formula” per la canzone ovviamente ci lavoro anche, c’è del crafting. Io scrivo in maniera semplice, non ci sono quasi mai cambi di tempo o di tonalità. Questo mi è stato anche non proprio rimproverato, ma quasi, intendo il fatto che le mie canzoni siano “un po’ quella cosa lì”. Però è anche il segno che ho trovato la formula giusta perché su quella canzone potrei scrivere anche tante strofe diverse, sempre una in più. Ovviamente non lo faccio perché poi la cosa diventerebbe noiosa.
L’A: E quando hai realizzato di avere abbastanza pezzi da costituire il tuo primo album [Questa Sera Non Esco, 2016, Wild Honey Records] ?
MT: Guarda, per me gli album sono solo un insieme di canzoni. Di sicuro non penso ai concept, più canzoni ho meglio è, ma sono sempre troppo poche anche perché poi il processo di registrazione non è strettamente professionale - queste canzoni le hanno arrangiate Riccardo Zamboni e Federico Laini e loro ci lavorano quando possono: lo fanno entrambi di lavoro e sono stati pagati, ma se hanno una pubblicità che li fa fatturare di più fanno ovviamente prima la pubblicità! Le ultime canzoni sono state pesantemente arrangiate da loro, e anche molto cambiate!
L’A: Immagino quindi che Riccardo e Federico abbiano avuto una forte influenza sulla sonorità dell’ultimo disco.
MT: Assolutamente! Per fare un confronto, il disco del 2016 era stato molto, molto lavorato fin da subito con la band con cui suonavo allora - quindi Bonfanti e Alessandro Adelio Rossi, un chitarrista molto artsy ed eclettico – e così tutti i pezzi risultavano già molto elaborati quando si andava a registrare, Quando invece abbiamo deciso di fare questo disco, nel 2019 o comunque pre-Covid, i pezzi sono stati presi così com’erano: chitarra/voce. Riccardo e Federico poi ci hanno lavorato sopra liberamente. Carta bianca. Io davo il demo e loro mi restituivano la canzone finita - ho sempre detto sì al risultato finale, ma in alcuni casi avrei voluto dire dei NI per elementi che mi avevano quasi un po’ scioccato, ad esempio tanti synth che non ero abituato a sentire, ma i pezzi suonavano bene. Alla fine il brano lo voglio arrangiato, loro sono i miei arrangiatori quindi va bene così!
L’A: Che i pezzi suonino è indubbio. Ricordo quando ho ascoltato i primi pezzi usciti come singolo la mia reazione è stata “wow”! Inaspettato, con quella nota pop…
MT: Alla fine è stato un buon compromesso, io non fatico per gli arrangiamenti e i produttori fanno un po’ quello che vogliono. Federico a livello personale non lo conosco tantissimo, ma Zambo [Riccardo Zamboni] è una persona molto metodica e che va molto a fondo nelle cose senza darle per scontate e, alla fine, questo metodo si è esteso a tutto il disco. Soprattutto per le ultime due canzoni registrate, che sono “NON UNA NAVE” e “DOBBIAMO ANDARE”, hanno fatto proprio un bel lavoro.
L’A: Le canzoni erano già più o meno scritte a inizio processo, nel 2019, o alcune le hai scritte durante il covid?
MT: Poche. La maggior parte le ho scritte dopo, come NON UNA NAVE che ho scritto durante il covid, infatti parla anche di quella cosa lì.
L’A: Se mi guardo in giro (questo che si tratti di canzoni o di film), mi sembra che quei due anni della nostra esistenza li abbiamo cancellati, non è successo niente, non sono mai esistiti. Invece, per fortuna, ogni tanto un pezzo fa i conti con quella realtà e questa cosa l’ho apprezzata molto, soprattutto essendo di Bergamo e con tutto quello che è accaduto qui.
MT: “È stato un anno poco divertente”. Il papà di una mia cara amica è morto per Covid proprio in quel periodo lì di aprile 2020, in cui non ti potevi vedere, e io sono rimasto abbastanza scosso. NON UNA NAVE è in realtà l’ultimo pezzo del disco su cui hanno lavorato e io non ero neanche convintissimo, non è che mi facesse impazzire, però loro sono stati bravi, con un bell’arrangiamento e hanno cambiato anche l’armonia rispetto a come la suonavo io.
L’A: Ti ho sentito suonare con la band in Edonè [uno dei principali locali e punti di aggregazione musicale della città, nonché sede di Edonè Dischi, l'etichetta per cui è uscito l'ultimo album di Trevisan], al release party di Questo Stupido Gioco, e la band era molto più rock, il chitarrista rivelava a tratti un’impostazione quasi metal!
MT: Allora, il bassista lo conosco da tanti anni, lui è tecnicamente molto bravo e gli piaccono da sempre le cose che scrivo. Lo stesso vale per il batterista. Avrei poi voluto cercare qualcuno che suonasse i synth però non conosco nessuno e, tra quelli della mia generazione, è difficile trovare qualcuno che suoni i sintetizzatori con una mentalità da produttore. A me però serviva qualcun altro perché la mia chitarra nel contesto della band non sarebbe stata sufficiente. E sempre sia lodato Riccardo Zamboni che ha assistito a tutte le prove della band e ha dato una mano ad arrangiare i brani anche durante le prove.
L’A: Preferisci suonare da solo in acustico o con la band?
MT: Con questa band, preferisco suonare con la band! In acustico è molto più facile. A Genova sto per andare a suonare in un negozio di dischi [Flamingo Records] e suono senza amplificazione, davvero 100% acustico. Poi il giorno dopo all’ARCI Scaletta sempre chitarra e voce. Comunque è meglio avere una band sotto, una band brava! Suonando da solo sono diciamo più efficace e produttivo a livello di scrittura di pezzi, però poi comunque ti manca comunque la band e non è facile a livello underground trovare gente che ha un approccio compatibile. I musicisti di loro tendono a essere abbastanza egocentrici, se sei in una band underground si è comunque tutti molto coinvolti nel processo.
L’A: Pezzo preferito del disco?
MT: “Davvero davvero”. Aveva un giro un po’ non dico banalotto ma un po’ rock alla cazzo, e non è sempre facile su quel tipo di brani tirare fuori un cantato giusto, invece alla fine ho trovato questo testo… e mi è piaciuto anche come l’hanno arrangiata!
L’A: Uno dei temi ricorrenti, magari un po’ inusuale, ma che rende bene la cifra stilistica delle tue canzoni, è il lavoro...
MT: Il lavoro. Bisognerebbe sempre trovare un po’ di poesia in una cosa in cui la poesia non c’è. Soprattutto dove lavoro io! Magari non poesia, ma qualcosa. La gente va a lavorare ma non gliene frega niente - capita anche a me ovviamente, vado e faccio le mie robe e vado a casa, però è sempre un pezzo di vita…
L’A: A livello di ore che uno ci spende, è il pezzo di vita più importante.
MT: Esatto, infatti il rapporto che io ho col lavoro tendo a tirarlo sempre fuori nelle mie canzoni. Per esempio un pezzo nuovo che ho scritto si chiama “Scarpe del lavoro” e l’ho scritto una volta in cui mi sono tolto appunto le scarpe del lavoro dicendo “ok, ne ho pieni i coglioni”!
L’A: È forse anche il tema che ti connette alla città di Bergamo, attorno a cui c’è un po’ questo immaginario collettivo di città dei lavoratori dove si lavora duro, poi magari ci si sbronza, ma la mattina dopo alle 8 -precisi- si inizia il turno.
MT: Sì, i bergamaschi hanno questa cosa, anche il voler mostrare che si lavora sempre. Poi io ho fatto anche il rappresentante sindacale per tanti anni quindi sono entrato a fondo in queste dinamiche
L’A: Il tuo legame col territorio viene fuori forse più da questo che da riferimenti geografici, a luoghi precisi, magari l’eccezione è un brano come Giuliana [storica trattoria in centro a Bergamo]
MT: Sì, che poi alla fine anche quel brano parla del lavoro! Bisognerebbe scrivere solo canzoni d’amore, come dice sempre il nostro amico Michele Dal Lago…
L’A: Sempre tornando al tuo live in Edonè, alla fine era stata richiesta a gran voce come bis Olympia WA, la cover del pezzo dei Rancid. Io ho poi comprato il tuo vinile e ascoltandolo il giorno dopo mi sono sentito in colpa a causa della bonus track, “Fare le cover”, che è molto bella ma parla appunto delle frustrazioni del dover suonare le cover…
MT: Io non volevo neanche metterla però Franz [responsabile della programmazione musicale di Edonè, fondatore di Edonè Dischi e mastermind del festival internazionale Punk Rock Raduno] me l’ha chiesto milioni di volte… ci sono persone, tipo appunto Franz, a cui alla fine io dico sempre “sì” perché dirgli di no è molto faticoso! Alcuni pezzi della canzone mi piacciono, altri magari li avrei cambiati e ci avrei lavorato sopra un po’ di più.
L’A: Ma hai altre cover nel cassetto oltre a quella dei Rancid?
MT: Un po’ di cover le suono, pur senza essere particolarmente bravo, altre cerco di non suonarle dal vivo perché sennò, come dice la canzone, poi la gente si ricorda solo di quelle! Sono stato a sentire Phill Reynolds [pseudonimo di Silva Martino Cantele, musicista alt-dark-country veneto] all’Arci Bellezza, a fine concerto stavo chiacchierando con lui e si avvicina una tipa e gli fa i complimenti per un brano… l’unica cover che aveva suonato! Meglio non fare le cover o rischi di buttare via tre quarti di concerto
.L’A: E tra quanti anni il prossimo disco?
MT: Io vorrei farlo molto velocemente! Quando entri nell’ottica di fare un disco ti metti anche un po’ più sotto, di gran carriera nello scrivere le cose. Avrei voluto farlo prima questo disco, poi non sapevo più se fare il disco, ho chiesto a Edonè Dischi… alla fine si torna sempre lì, se potessi scrivere 8 ore al giorno scriverei più canzoni. Cioè, gli scrittori scrivono in continuazione, da quello che so io. Leggevo Bukowski da adolescente e la storia di come si era sviluppato come scrittore e la sua routine. Anche Nick Cave… guardavo un documentario con lui che si alza la mattina e va in sala prove, poi va a mangiare, poi risuona il pomeriggio, nel frattempo scrive le canzoni col suo socio violinista devastato, Warren Ellis. Qui si fa quel che si può.
L’A: L’hai riascoltato il tuo disco nella sua forma finale? Hai cambiato opinione su alcuni pezzi riascoltandoli?
MT: Sì, tante volte, anche perché i premix erano pronti molto prima e li ho riascoltati molte volte. Poi c’è stato il mastering finale. Più che altro c’erano questioni di tonalità, magari dal vivo rendono meglio altre rispetto a quelle registrate in studio. Adesso magari canto un po’ più alto di voce rispetto a prima e dal vivo. La preparazione ai live questa volta è stata fatta in maniera molto più professionale. Quando suoni con una band è sempre difficile e c’è una parte di lavoro che andrebbe presa in maniera distaccata, senza andare a sensazioni. Forse per questo è meglio, o almeno io preferisco, suonare con persone che conosco poco. Persone con le quali ti trovi solo a suonare perché poi nascono sempre queste dinamiche… litigate, gruppi che dicono basta perché non succede nulla. Nei gruppi devi avere il culo di trovare quattro persone che creino delle dinamiche che funzionino. L’eventuale successo poi ovviamente aiuta, ma se non ce l’hai e sei sempre in giro senza avere riscontri può diventare frustrante.
L’A: Final thoughts?
MT: Mi piacerebbe suonare il più possibile. Anche in ambienti non “del giro”. È difficile suonare fuori, ma è la cosa migliore se proponi materiale tuo, anche senza allontanarsi geograficamente e suonare in posti non appartenenti al giro punk o alternative ma cosiddetti “normali”. Ho suonato anche in posti così e magari la gente ti guarda un attimo storto, però è proprio l’accesso a un pubblico diverso!.