L'urlo silenzioso di Kerouac: quando la follia uccide l'omologazione
Un tempo in America la poesia prendeva il potere sputandoci sopra, afferrando per mano le migliori menti della generazione “destroyed by madness”. Molte di loro, negli anni precedenti alla Beat Generation, stavano per essere fagocitate dai ritmi della società di Truman e Eisenhower, quando i giorni si traducevano in istanti di vita omologanti a tal punto da mettere fuori gioco ogni sprazzo di diversità. A prendere per mano questi ragazzi fu un gruppo di eversivi della penna. Il più matto di tutti, neanche a dirlo, Allen Ginsberg, fautore dell’urlo più famoso del ‘900 insieme a quello di Edward Munch e di Marco Tardelli. Il suo “Howl” frantuma le certezze dell’elite statunitense, come un barbarico Yawp qualunque. Il ruggito di Ginsberg sale e scende tra i pensieri delle giovani menti americane e arriva alle orecchie del protagonista di oggi: Jack Kerouac.
Mezzo secolo fa il suo boato si fece sempre più sottile, anche a causa di un esofago ormai in frantumi e per colpa delle venticinque trasfusioni di sangue effettuate nell’arco finale della sua esistenza. L’ultimo fiato del padre della Beat Generation raggiunse le nuvole in pochi istanti, partendo da una casetta in quel di St. Petersburg, in Florida, un luogo sperduto nel sud-est degli Stati Uniti. Una morte solitaria, figlia dell’alcool e degli eccessi che l’autore si era concesso nel corso della sua vita.
Tuttavia se Kerouac avesse avuto la possibilità di scrivere la sua morte l’avrebbe immaginata proprio così, lontano da ogni sembianza umana, nel confine tra Arthur McCandless e Chuck Noland. Amava i viaggi ma odiava la folla, sceglieva la strada alla stasi, passeggiava in silenzio invece di parlare in pubblico. Una condotta atipica ma celebre agli occhi dei suoi lettori, a tal punto da regalare all’autore l’epiteto di “vagabondo errante” o di “clericus vagans”. Vagante sia nei passi che nell’anima, che spesso lasciava cullare tra le mura della casa di sua madre, la sua “memere”, il personaggio maggiormente citato nella sua opera magna “On The Road”.
“Sulla Strada”, appunto. La sintesi della sua vita trascorsa tra la Route 66 e gli angoli nascosti degli Stati Uniti, nonché connubio tra la strada come territorio privo di regole e l’esigenza di libertà di un popolo di ragazzi, molti dei quali avrebbero dato poi vita ai moti del ‘68. Kerouac arrivò ben prima di Woodstock, dando fiato ai dimenticati con fare ironico, dissacrante e malinconico attraverso la soggettiva di Sal Paradise, pseudonimo dello stesso Kerouac. Rompe la prassi, scegliendo il gergo dialettale a scapito del bel parlato. Scompagina l’elite, scrive bestemmie e penetra nell’anima degli astanti, facendosi portatore delle istanze di coloro che erano destinati all’oblio e che invece, grazie alla Beat, videro una luce nuova.
Jack Kerouac, insieme ad Allen Ginsberg e Lawrence Ferlinghetti, si fece aquilifero di una gioventù nascosta, definita “ribelle e bruciata” dai critici dell’epoca ma piena di vita per gli esponenti della Beat Generation. Una vita che per Kerouac si traduceva negli “Autobus americanos”, nelle scritte a Chicago e New York, nei libri e nei caffè dimenticati sul bancone, gli stessi che l’autore amava descrivere nel suo “On The Road”. In un’intervista rilasciata alla giornalista Fernanda Pivano disse di essere un “giovane nostalgico e malinconico”, esattamente come i ragazzi figli della Beat Generation. In molti si ispirarono a lui per fuggire dall’oblio in cui rischiavano di affogare, tra questi c’erano tanti dei pazzi ai margini del progresso ma che, per Kerouac, erano “vogliosi di vivere, di parole e di salvezza”. Quelli difesi da Erasmo da Rotterdam e da Aristotele, dal quale si può tranquillamente rubare una frase per spiegare sia Kerouac che i suoi seguaci: “Non esiste grande genio senza una dose di follia”. Ecco, cinquant’anni di follia durano un attimo, ma mezzo secolo orfano di questi ideali è tempo morto, inutile ai posteri e scevro da clamori storici. Fortunatamente la strada di Kerouac venne ben tracciata, così bene che se oggi esiste la libertà di cantare “c’è una checca che fa il tifo” o “sdraiato a terra come i Doors” forse, alla lontana, il merito è anche suo.