«Mila» di Christos Nikou e il contagio dell’oblio
Film d’esordio del greco Christos Nikou, assistente alla regia del maestro Yorgos Lanthimos (in Dogtooth, 2009), «Mila» inaugura la sezione Orizzonti della settantasettesima edizione del Festival di Venezia con una storia enigmatica sul tema dell’identità e della memoria. Scopriamo che una misteriosa epidemia di amnesia si sta diffondendo nella città privando chi ne viene colpito di qualsiasi ricordo. La familiarità dello spettatore (drammaticamente attuale) con i temi della malattia e del contagio, rafforzata da un’atmosfera grave e inquietante degna degli scenari di Cecità (Saramago, 1995), creano un’immediata empatia nei confronti delle vicende e dei personaggi.
Il giovane Aris si addormenta su un autobus e al risveglio non ricorda più chi è e quale sia il suo passato. In ospedale accetta di aderire a un programma medico visionario e spregiudicato, finalizzato a costruire una nuova identità personale accumulando ricordi ed esperienze da immortalare e collezionare in un album fotografico. Aris vive le sue nuove “prime volte” con la catatonia e il distacco tipici dei personaggi del cinema greco e un sarcasmo nutrito di diffidenza e goffaggine. L’incontro con una ragazza che partecipa al suo stesso programma fa pensare in un primo momento a un epilogo romantico nel quale i due ritrovano la felicità condividendo un destino e ricostruendo da zero una nuova vita insieme: il potenziale idillio è però spezzato da una lucidissima presa di consapevolezza del protagonista, che ci fa riflettere su come i rapporti umani si rivelino deludenti anche se nati sotto il segno di un dramma comune.
Scena dopo scena ci sentiamo turbati dalla naturalezza con cui sembra che i personaggi abbiano accettato l’oblio della loro vita precedente: arriviamo a comprendere che dev’esserci una sorta di volontà nel non ricordare, il desiderio di abbandonare un passato doloroso. L’unica cosa che Aris ricorda, infatti, è di amare le mele, e quando in una frutteria il commesso gli rivela che mangiarne molte aiuta la memoria, decide di non comprarne più e di mangiare solo arance. Le mele, come oggetti magici e simbolici, segnano il passaggio dal fantasy distopico al mondo più raffinato della metafora, dove la malattia è emblema tragico della nostra lotta contro il dolore e il lutto. Grazie al finale disincantato e pessimista il film recupera quell’originalità che durante lo sviluppo della storia si va un po’ perdendo.