L'Amletico

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Okakura Kakuzō, “Il libro del tè”

 Per leggere questo libro bisognerebbe procedere lentamente. L’edizione è molto curata, le note sono approfondite, le poche ma splendide illustrazioni allietano l’inizio di ogni capitolo. Devo però dire che la mia copia, e purtroppo non solo la mia, ha un grandissimo problema. Considerato il prezzo non basso dell’edizione, è davvero una scocciatura: un terzo del saggio finale di Gian Carlo Calza è in italiano, ma da una pagina all’altra, ex abrupto, il saggio diventa in inglese. Non sarebbe un problema la lingua in sé, ho letto i restanti due terzi tranquillamente, ma o tutto in italiano o tutto in inglese, senza che il passaggio da una lingua all’altra, certamente un errore, si mangi frasi intere del saggio! Così non va per niente bene!

Ma per tornare all’esperienza sensoriale che il libro, fino a quel momento, mi ha riservato, recupero la lentezza, il piacere tattile provocato dalla bella carta, i caratteri tipografici gradevoli. Il colore delle pagine forse è poco luminoso per una lettura che non sia sotto luce diretta, ma anche il colore fa parte della ricerca estetica che l’editore, spinto evidentemente dalla raffinatezza del testo, ha compiuto.

Spero, quindi, che il problema sia stato risolto perché, nonostante lo sgradevole incidente finale, questa è una edizione molto bella.

Esattamente come viene spiegato nell’eccellente postfazione di Gian Carlo Calza - pur a metà fra due lingue - “Il libro del tè”, per chi ne fosse incuriosito, non è un libro sul tè.

Non è un manuale dove l’amante della bevanda possa trovare spiegazioni sui suoi usi e consumi, non è un’antologia di varietà, di modalità, di pensieri sul tè. Nè l’appassionato di cultura giapponese, che possa aspettarsi un libro sulla cerimonia del tè, verrebbe soddisfatto nella sua sete, poiché pur partendo da detta cerimonia, non è questo il libro del “come”.

Non che “Il libro del tè” parli di elefanti, no di certo, ma partendo dalla cerimonia del tè, quasi fosse lo stesso pretesto che Proust utilizzò sfruttando un infuso al tiglio ed una madeleine, Okakura fa germogliare un mondo dalla sua tazza: il mondo dell’arte, della religione, della filosofia, dei fiori, del modo orientale di vivere.

Ci si trova, in effetti, davanti ad un testo dall’importanza capitale. Okakura è vissuto in un’epoca densa di cambiamenti, a cavallo fra il Giappone feudale, sua terra di origine, che si stava aprendo nuovamente al mondo dopo secoli di isolamento, e l’Occidente che, se non geograficamente, ma culturalmente ed economicamente stava volgendo alla conquista dell’Estremo Oriente, in particolare dello stesso Giappone. Perciò, Okakura volle scrivere questo libro in inglese affinché l’importanza, la vastità e la qualità della cultura giapponese potessero avere maggior diffusione possibile fra noi occidentali, nella lingua predominante del nuovo mondo che stava fagocitando il vecchio.

Okakura, però, compì questa impresa facendosi contemporaneamente portavoce, in patria, di una sorta di autogiapponismo che si rivolgeva quindi non solo agli occidentali, ma anche agli stessi giapponesi, tanto presi da una uguale e contraria foga occidentalizzante che rischiava di obliterare i tratti distintivi della propria cultura.

Il libro del tè” non è un libro sul particolare, ma un libro che tende all’universale: non si parla di tè ma di Teismo. Già, perché il tè trascende il piacere contingente di sorseggiare una bevanda ambrata e si innalza al rango di religione. Perciò, esso diventa qualcosa di sacro, il cui cerimoniale deve rispondere a leggi di perfezione, non tanto per il beneficio della società quanto per il beneficio del singolo. Il Taoismo è, come spiega Okakura, una religione dell’individualismo ed il Teismo ne è la base. Il Teismo è quindi il mezzo per la conoscenza di sé, per la propria crescita culturale, per ritrovare la pace perduta. Ma in questa visione ecumenica, Okakura non resta relegato ai confini isolani nazionali, indaga la cultura asiatica abbracciando quella cinese, che è in effetti la culla della civiltà dell’Estremo Oriente, e si spinge fino alla cultura indiana. Okakura sogna, intravede forse, tratti pan-asiatici che usa come scudo contro la falce della cultura occidentale.

Il libro del tè” quindi, necessariamente, deve indagare ogni tassello che concorre alla formazione secondo i precetti del Teismo, non può prescindere dall’Arte e dai Fiori, a cui vengono dedicati due interi capitoli.

Religione essa stessa, all’Arte vengono dedicate pagine incredibili, di una lungimiranza rara e di rara chiarezza, portatrici di verità tanto profonde da essere valide ancora oggi - e, scommetto, pronte ad esserlo sempre. Alla condanna delle mode, che uccidono la validità intrinseca dell’Arte a favore del prosaico valore economico - piace di più ciò che costa tanto - si affianca la luminosa idea della responsabilità dell’arte: l’arte deve saper comunicare ad un fruitore, che a sua volta ha la responsabilità, è chiaro, di saper comprendere. In poche righe Okakura distrugge - a ragione! - tutta quella produzione pseudoartistica che fa dell’incomunicabilità la propria forza. La contemplazione del particolare - di un solo particolare - viene contrapposta alla smania collezionistica occidentale, all’ingordigia museale delle case occidentali. La contemplazione dell’unico diventa il mezzo di comprensione dei vasti messaggi dell’Arte da parte dell’individuo.

Il libro professa un certo elitismo, bisogna dirlo, sebbene non si tratti di un elitismo di nascita, bensì di un elitismo derivante dalla disciplina. Come, poi, ci si possa permettere - in senso economico - una tale disciplina è un altro problema, di cui Okakura non si cura. Sic est.

Come tutte le idee ambiziose anche queste presentano contraddizioni, come tutte le religioni anche quelle qui raccontate hanno punti oscuri. Ciò non toglie che “Il libro del tè” sia un testo frutto di una cultura incredibilmente vasta e raffinatissima; Okakura, padrone della cultura occidentale e di quella orientale, ha messo a disposizione le proprie conoscenze a beneficio dell’una e dell’altra.