Quello che non ho: Neri Marcorè racconta l'Italia insieme a De André e Pasolini
Drammaturgia e Regia: Giorgio Gallione
È il 1995, Neri Marcorè è a Napoli per assistere ad un concerto di Fabrizio de André. Sotto braccio tiene il Corriere della Sera, dove sono stati ripubblicati alcuni degli scritti Corsari di Pasolini. L’attore marchigiano, che confessa di non aver mai letto niente di suo fino ad allora, resta incantato dalle parole dure e provocatorie del poeta. Quel giorno, per la prima volta, Neri Marcorè ha accostato Pasolini e De André, per puro caso.
Intellettuali, poeti, artisti visionari, anticonformisti, Pasolini e de André hanno segnato la storia dell’Italia nel secondo Novecento; l’uno con le sue poesie, i romanzi, i film, l’altro con la sua musica, le canzoni, poesia cantata. Con uno stile crudo e sincero, il friulano acquisito denunciava i mali della società italiana, criticava il consumismo, il perbenismo e il conformismo, e narrava le vicende dei ragazzi di vita.
Il genovese invece, con uno stile profondo, ricco di metafore e a tratti criptico, cantava le storie dei reietti della società: gli zingari, le prostitute, i malati, i carcerati…
Due figure complesse, solitarie, che hanno in comune l’attenzione per gli ultimi ed una straordinaria capacità di analisi critica, osservatori attenti della società e dei suoi cambiamenti.
Ventidue anni dopo quell’incontro casuale, Neri Marcorè torna a far dialogare i due poeti, utilizzando la forma del teatro canzone.
Si apre il sipario, la scenografia è piuttosto essenziale: un fondale che riproduce una sorta di parete rocciosa, una colonna semi trasparente al centro, quattro sedie ed altrettante chitarre, e delle luci e neon che scendono ogni tanto per enfatizzare la narrazione.
Partendo dalle canzoni di Faber, in particolare dal concept album “Le nuvole” (suo penultimo disco, registrato nel 1990), si alternano le cantate alle letture profetiche di Pasolini, intervallate da riflessioni e racconti di Marcorè.
Un affresco teatrale della società odierna, una riflessione sulla nostra epoca; questo si propone di essere “Quello che non ho”. Un buon affresco però, per essere tale, deve essere calibrato in ogni sua parte, equilibrato, studiato attentamente; se vi lavorano troppe mani diverse, se vi convergono troppi stili, rischia di essere disarmonico e incoerente. Così si ha l’impressione che in questo affresco teatrale ci sia troppa carne al fuoco, troppi argomenti tirati in ballo: si passa dall’enorme continente di plastica che galleggia al largo delle Hawaii, alle guerre civili causate dal coltan (il minerale essenziale per la fabbricazione dei cellulari), dalle surreali, eppur realissime, interrogazioni parlamentari che lamentano la scomparsa del personaggio di topolino Clarabella, alla decrescita felice fino al consumismo…
Certo, si potrebbe controbattere, sono tutti temi attuali che rispecchiano la nostra società, eppure a tratti l’impressione è stata di assistere ad una lista di problemi che viviamo piu o meno da vicino, spesso tematiche risapute, con tanto di “ogni sei secondi nel mondo muore una persona di fame”. Anche l’elogio agli anni Sessanta, dopo la lettura di Pasolini contro la società dei consumi, non appare molto coerente. Sul finale infatti il decennio del boom economico viene esaltato per la produzione di begli oggetti del made in Italy, come la Ferrari, la Bialetti, la Olivetti, dimenticando però gli orrori perpetrati a danno del paesaggio con l’abuso edilizio e la costruzione di enormi palazzoni in tutta la Penisola.
Incoerenze e poca coesione della trama che però non danneggiano più di tanto lo spettacolo, che risulta comunque piacevole; così il pubblico si lascia trasportare dalla musica, elemento fondante della messinscena. Neri Marcorè, Giua, Pietro Guarracino e Vieri Sturlini (voci e chitarre), convincono. Le canzoni di De André portate sul palco sono dieci, e si va da quelle meno note al grande pubblico, come “Canzone per l’estate” che chiude lo spettacolo, ai pezzi più famosi come “Dolcenera” e “Don Raffaè”. La platea batte i piedi tenendo il ritmo, mentre canticchia le canzoni sottovoce.
Marcorè è credibile nelle vesti del grande cantautore, e stupisce il pubblico che lo conosceva solo per le sue doti recitative, dimostrando delle più che discrete qualità canore. Solo in alcuni pezzi fatica un po' e tende ad appiattire la forza dei brani; ma ovviamente il confronto con De André è sempre arduo (se non impossibile!), e non lo si può certo criticare per non raggiungere le note basse e così profonde di Faber.
Stupisce anche Giua alla voce, cantautrice e chitarrista ligure che incanta nelle vesti di Dori Ghezzi nella parte finale in lingua rom di “Khorakhanè”. Impeccabili infine anche Guarracino e Sturlini nei loro assoli di chitarra.
Un mosaico teatrale che non risplende quanto avrebbe potuto, per via dei troppi tasselli diversi incastonati nella malta.
Buono il lavoro degli artisti, un po' meno quello del “committente”. Promosso il quartetto, rimandato il regista.
Canzoni di: FABRIZIO DE ANDRE'
Arrangiamenti musicali: Paolo Silvestri
Collaborazione alla drammaturgia: Giulio Costa
Scene e costumi: Guido Fiorato
Luci: Aldo Mantovani
Dedicato a: PIER PAOLO PASOLINI