L'Amletico

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La poesia di Michael Jordan

Si è appena conclusa la stagione 1997/1998. I Chicago Bulls sono riusciti a mettere in bacheca il loro sesto titolo – il terzo consecutivo – completando il three peat: l’unica squadra nella storia della NBA a riuscirci per ben due volte. La vittoria è stata sugellata dal canestro di Michael Jordan, che ha gelato le speranze dei 17.000 presenti al Delta Center, ma ha mandato in visibilio il mondo intero. Un momento unico e indimenticabile, che tanti vorrebbero veder ripetere l’anno successivo.

È tempo però di addii. Gli attriti fra il dirigente Jerry Krause e l’allenatore Phil Jackson non sono stati risolti durante il corso della stagione. E al coach dei Bulls non verrà rinnovato il contratto.

Le luci sono spente nello spogliatoio. Solo una fiamma arde in un barattolo di caffè, bruciando i pensieri che i giocatori hanno scritto a Jackson prima della sua partenza. Tra quei fogli c’è anche una poesia di Jordan.

“Cosa sei stato? Dove andrai adesso? Quale significato ha per te tutto questo?”. L’atleta spietato, l’uomo senza scrupoli, il campione dal sangue freddo mostrava alla fine il suo lato umano. “È stato uno dei momenti più sorprendenti”, ricorda il compagno di squadra Steve Kerr. “Non lo dimenticherò mai. Eravamo tutti in lacrime”.

Passa anche da questo aneddoto la carriera del giocatore di basket più conosciuto di sempre. La sua ferocia agonistica, il suo sconfinato ego, la sua ossessione per la competizione non sarebbero bastate da sole a garantirgli il successo. Ha dovuto mettere a disposizione della squadra anche il suo lato più vulnerabile, convinto da quell’allenatore che aveva saputo unire personalità diverse per portarle alla vittoria.

“Non so perché non abbiamo continuato. Avremmo potuto vincere ancora”. Traspare rammarico dalle parole di Jordan pronunciate durante l’intervista rilasciata ad Ahmad Rashad per quel cammino interrottosi troppo bruscamente. Dal suo approdo nella lega cestistica americana, fino al suo ultimo ritiro, non ha mai smesso di pensare al titolo, ma ha saputo aspettare 7 anni prima di vincerlo.

Molto meno invece il tempo per cambiare l’NBA. Grazie all’intuizione del marketing manager della Nike Sonny Vaccaro, diventò il primo atleta ad avere una linea personale di scarpe e a riscrivere i canoni dell’abbigliamento cestistico, sostituendo ai classici pantaloncini i baggies (shorts più larghi e più lunghi, sotto il ginocchio), ora usati da tutte le squadre.

Una rivoluzione che non solo ha investito il modo di giocare e vestire, ma anche gli stipendi dei giocatori, che non sono stati più gli stessi dopo di lui, toccando cifre record. Non erano però i soldi ad animarlo, ma la sua fame di vittoria. Uno degli innumerevoli episodi raccontati in questo libro lo conferma. Tornato in campo per migliorare i Washington Wizards, avrebbe voluto continuare a far parte della società anche dopo il suo addio, così da costruire una squadra da titolo. Il proprietario dei Washington Wizard, Abe Pollin, aveva tuttavia altre idee, pensava a rifondare la squadra, a qualche anno di transizione. Inaccettabile per uno come Jordan. Quando si trattò di parlare della buonuscita, Pollin mise sul piatto 30 milioni di dollari. Michael guardò il magnate negli occhi, si girò e se ne andò, lasciando l’assegno sul tavolo. Non era una questione di soldi, ma di mentalità. E la sua è sempre stata quella di un vincente.

Michael Jordan ama giocare e giocare per vincere. “Love of the game” non è dunque solo il nome della clausola che aveva stipulato nel suo primo contratto con i Bulls (e che gli dava la possibilità di giocare in qualsiasi partita, persino non ufficiale), è anche il simbolo di una carriera, il marchio dei suoi sei anelli, il segreto del giocatore più forte di tutti i tempi.