Roma raccontata dalle voci femminili di Ingeborg Bachmann e Marguerite Duras
Raccontare una città è un’impresa in cui molti si sono cimentati.
Un impulso istintivo, quello di dare forma a questo luogo di vita brulicante attraverso immagini e linguaggi che possano restituire un’impressione fugace o qualcosa di più profondo e strutturato, forse l’oscura coscienza che da qualche parte fra un vicolo e un incrocio risieda un che di prezioso in grado di dirci tanto su di noi. La città è un magma incandescente, qualcosa che cresce e si espande, che assimila e distrugge. Per quanto moderna se non ultramoderna, deve contenere la chiave di un mistero ctonio.
Da cosa nasce questa esigenza?
Fissare su carta o attraverso immagini la propria esperienza, conoscenza, appartenenza ad un luogo (e non uno qualsiasi), trasmetterla in modo effimero, per eternizzarla utopicamente.
Un’immagine stereotipata della città
Le cose possono essere molto semplici. Le guide turistiche raccontano in termini schietti e con immagini invitanti tutte le metropoli turistiche del mondo, appiattendo il globo per far girare l’economia. Raccontano in formato tascabile città di “cultura e storia” la cui eredità viene sinteticamente banalizzata, per darci l’illusione che la loro essenza sia a portata di mano. Oggi c’è un enorme scelta, e se ne scrivono di più appetibili esteticamente di tanti esemplari dozzinali che un tempo affollavano le vetrine delle agenzie di viaggi. Volumetti striminziti con la copertina lucida e panoramiche sgranate di monumenti-souvenir iconici. Per quanto innocente, tutto ciò ha contribuito a costruire un’immaginario della “vacanza” che irrigidisce notevolmente l’immagine reale delle città, organismi sempre più complessi e problematici.
Il nitore della resa di Instagram ha reso l’efficacia di questa logica di mercato ancora più stringente: cosa dire dei blogger di viaggi che con i loro droni visitano (se non violentano) i paesaggi urbani? Spettacolarizzandoli e rendendoli irreali. Tokyo, Berlino, Londra, Istanbul come le ambientazioni virtuali di un videogioco da visitare nella realtà come degli oggetti di finzione. Intrusi meccanici che si insinuano fra cupole e campanili, torri e grattacieli che dominando tutto con una visione di uccello e uno sguardo freddo e disincarnato, dandoci l’impressione che – appunto – sia tutto.
Immagini frammentarie della città
Nei diari e nelle memorie di viaggio di intellettuali, politici e personaggi pubblici si cerca talvolta, parlando di città care, di rintracciare un’origine perduta, ricercando i “nessi” che sono saltati fra sé e un contesto di cui ci si vuole riappropriare, spinti da chissà quale esigenza interiore. Ci si ridesta all’improvviso, e si vuole acciuffare un’appartenenza che di diritto dovrebbe spettarci, come una mano che cerca invano di prendere al volo una farfalla. Il rischio della retorica è dietro l’angolo, e basta poco a cadere nei luoghi comuni offerti dalle narrazioni di repertorio.
Parlare della città dove si è nati? Quella che si è scelto? O quella da cui si è stati scelti. Spesso una capitale esercita un richiamo fatale. D’altra parte, non sempre la propria origine coincide con le coordinate geografiche della propria nascita. Talvolta si vuole evadere, e risulta più conveniente parlare di megalopoli esotiche e straniere che si è visitati e che mai più si rivedrà. Un viaggio può trasformarsi improvvisamente in una fuga forsennata e turbinosa, in cui si racconta di una carrellata di strade, nomi, scorci che nel movimento generale si ibridano e si confondono. Quasi il riflesso di una strana forma di anaffettività che nel ripudio cieco di una forma qualsiasi di appartenenza conduce a preferire l’oblio di un’anonima moltitudine.
Le cose si fanno più complesse quando Roma è la città in questione.
Due sguardi “stranieri”
Ingeborg Bachman (1926-1973) è stata una scrittrice e poetessa austriaca che ha vissuto molti anni a Roma (risiedendo a via Giulia, via Bocca di Leone, Piazza della Quercia), dove ha prodotto numerosi dei suoi scritti e partecipato alla ricca vita culturale del tempo. Innamorata dell'Italia (trascorre lunghi soggiorni anche a Ischia e Napoli), la chiama la sua “terra primigenia”, ma anche la sua “seconda patria”, parlando perfettamente la lingua. Infatti, nata a Klagenfurt, nella regione della Carinzia, Bachmann cresce in un territorio e una cultura dove il trilinguismo (si parla tedesco, sloveno e italiano) crea una condizione molto particolare in un’epoca in cui si abbracciavano le identità nazionali come violenti baluardi difensivi. Il termine “Windisch” – usato per definire questo connubio - indica un ideale di linguaggio e popolo sospeso in un crocevia identitario, che facilità l’identificazione da parte dell’autrice della Valle del Gail con una sorta di “valle dell’Eden” terrestre che non risolve le contraddizioni, ma le tiene insieme.
Nel 1955 scrive Quel che ho visto e udito a Roma, un breve testo che apparentemente si inserisce nel topos letterario delle “impressioni romane”. La verve descrittiva di queste pagine si pone come una ricerca fenomenologica che spinge lo sguardo ad un punto estremo delle sue possibilità, facendo tabula rasa di ogni stereotipo e cliché, esplorando la città senza nostalgia. Non si evoca il glorioso e decadente fascino della “città eterna”, ma la complessità di una città comune piena di contraddizioni, per (ri)scoprirne l’alterità, non in una prospettiva internazionalista, ma transnazionale. È il suo sguardo di “straniera” che riscatta la visione di Roma da tutta una serie di determinazioni, viscose e sedimentate, che pregiudicano quella forma assoluta di libertà che consiste nello scoprire e nello scoprirsi in relazione alla città. Scrive:
In Italia ho imparato a servirmi degli occhi, ho imparato a guardare. In Italia mi piace mangiare, mi piace passeggiare per le strade, mi piace guardare la gente
“Imparare a vedere (e a sentire) significa liberarsi da ogni schema ideologico, approdare a formulazioni nuove che colgono rapporti insospettati fra le cose” scrive Giorgio Agamben nell’introduzione al testo dell’edizione Quodlibet curata da lui. Passando in rassegna il Tevere, il lungotevere con i platani, i ponti, la basilica di San Pietro, i palazzi nobiliari, il ghetto, Campo de’ Fiori, monumenti architettonici, archeologici, la stazione Termini, il quartiere di Testaccio, Bachmann nell’”impurità” di una partecipazione così viva e simbiotica ritrova la “verginità” di una visione che raggiunge vette liriche, ridonando gli occhi per guardare a chi – stanco – si è ritrovato nella confusione di Roma a vedere con il filtro di lenti opache una realtà selvaggia e sfuggente.
Anche Marguerite Duras nel suo Dialogo di Roma (1982) resta “al di qua” di ogni ricarica di un’essenza (ideale, perduta, nostalgica…), abbracciando la città nella sua dimensione plurale, il suo movimento ondivago, torrenziale e ineffabile. Proprio come un fiume scorrono le immagini dei piani sequenza che mostrano le vie del centro e della campagna, mentre sentiamo la conversazione di due amanti (dal carattere esplicitamente biografico) che approfondiscono la complessità della loro relazione in connessione con la città. Nella sinossi del testo, che verrà pubblicato nel 1993 in Écrire, Duras scrive:
Durante la conversazione degli amanti, non vedremo altro che Roma. La Roma che mostrerò, non vorrei sceglierla. Vorrei scegliere un asse della città e seguirlo qualunque cosa attraversi. I soli punti per i quali dovrebbe sicuramente passare sono San Pietro in Vaticano, il Monte Palatino, Palazzo Farnese, il Tevere, Castel Sant’Angelo, le grandi spianate e le grandi scalinate di villa Medici. La macchina da presa attraverserebbe i palazzi, i corridoi di Palazzo Farnese per poi ritrovarsi, senza transizione, sulle grandi vasche di Tivoli. Vorrei dare il sentimento che ho io di Roma, di una materia intrinseca indissociabile, soffocante, cavernosa dentro e fuori, diversamente da Parigi che è tutta radure, spazi aperti, per dove passano il cielo, il vento.
Lasciando campo libero a spazi bianchi, frasi laconiche, sospese, momenti di vuoto e di intensità lacerante, Duras intesse la sua relazione con Yann Andréa (uomo molto più giovane di lei e omosessuale) dentro il cuore materico – fatto di acqua e travertino – di Roma, così come in altri testi (La malattia della morte, Occhi blu capelli neri, Yann Andréa Steiner) aveva esplorato questo amore in luoghi a lei più familiari, nella costa della Bassa Normandia. Accogliente ma difficile, questa storia come le città restano in ultima analisi indecifrabili, e l’enigma che alleggia come un fantasma alla fine della visione sembra gravato di un peso millenario.
Perché proprio Roma?
Mentre l’appiattimento mediatico riconduce le città, fra cui Roma, a delle identità macchiettistiche costruite artificialmente dal sistema dell’industria dell’intrattenimento - appropriandosi e svalutando tradizioni, creando nuove mitologie arbitrarie - è importante conservare e mantenere viva la testimonianza di Bachmann e Duras. Ci mostrano che esiste un altro modo di raccontare la città, donando a questa uno sguardo, su di noi, sull’esperienza che stiamo vivendo nel momento in cui l’accadere riesce a farsi scrittura e immagine, dilatando e accelerando le temporalità, interagendo con la sedimentazione di un passato che rivela la sua ricchezza nel momento in cui (ri)gioca la sua identità, per aprirsi ad incontri e contaminazioni.