Sibilla Aleramo: “Amo dunque sono”
Speravo di imbattermi in belle pagine, leggendo un simile titolo al quale ci si può aggrappare come ad un dogma.
Ho cominciato a leggere queste lettere ben tre volte: le avevo prese alla leggera, invece mi sono infranto subito contro un muro denso di immagini e suoni, una complessità che non aveva niente a che vedere con l’immediatezza che, chissà per quale motivo, mi prefiguravo.
Le prime lettere le ho percepite velate di un certo autocompiacimento che, devo dire, non ho trovato disturbante; esso non viene meno nelle poesie - ops, ho detto poesie? lapsus eloquente - nelle lettere successive, benché appunto nelle prime, forse complice un moto di ribellione dell’autrice nei confronti della lontananza forzata dall’amato, mi sia parso più evidente. Aleramo è compiaciuta di saper scrivere, di sapere amare, di saper scrivere quanto ami e della qualità intrinsecamente positiva del proprio amore.
Qualcosa però mancava a queste prime pagine per arrivare alla forza religiosa subodorata nel titolo. Forse la freschezza della separazione dei due amanti rendeva ancora acerbo il frutto del rigoroso compito autoimposto di scrivere quotidianamente, producendo parole meno significative rispetto a quelle immaginate.
Aleramo, comunque, non tarda a mostrarsi profondamente erotica, di calda carne; comincia ad arricchire di suoni seducenti le pagine; man mano tutti i temi si accordano nell’ouverture delle prime lettere.
Poi, improvvisa, la folgorazione: la lettera dell’otto luglio, per me rivelatrice.
Aleramo parla di uccelli e di ali e si trasfigura ai miei occhi: capisco! Aleramo non è la donna succube, bensì la donna che concede di essere predata e, si badi bene, solo nella misura in cui lei lo permette. Non è la preda, è l’ossessione del predatore, la consapevole burattinaia che finge di avere i fili alle braccia.
Sua la potenza in virtù di un amore creatore che innalza inni, che travalica i sessi, i generi, che giustifica ogni umiliazione nobilitandola e tramutandola in supremo sacrificio.
Aleramo è la sacerdotessa di un nuovo dio, l’Amore, al quale tutto ritorna, che tutto permette e che tutto asseconda, se compiuto in suo nome. Aleramo ama l’amore forse più di quanto ami Luciano.
Questa musica che comincia con un piano, del quale si può persino diffidare, percorre un crescendo di cui raramente sono stato testimone in letteratura.
Aleramo lo dice, innalza laudi fragorose; si sente musica che cresce e detona in un unico, portentoso «Tu» oltre il quale, poco dopo, in una coda necessaria a stemperare questo tumulto, Aleramo tace, la sinfonia delle lettere finisce e cede il passo al concerto privato per lei e Luciano.