L'Amletico

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Simone Zafferani: L’ora delle verità

Otto anni dopo le poesie de L’imprevisto mondo, Simone Zafferani (nato a Terni nel ’72 ma romano di adozione, tra le voci più limpide e significative della sua generazione poetica) torna in libreria con L’ora delle verità per l’editore peQuod, raccolta che segna l’approdo del poeta a una maturità espressiva modulata sul gioco variantistico dei registri.

Per «L’Amletico» abbiamo intervistato Zafferani in occasione dell’uscita del suo nuovo lavoro.


 L’Amletico: Scrive Vittorio Sereni ne Gli immediati dintorni, a proposito del silenzio creativo, che “di vergognoso non c’è che la vergogna di vergognarsi dello stato d’impotenza. Uno dovrebbe avere la forza di convertire in altro che nello scrivere l’energia (…) Si convive per anni con sensazioni, impressioni, sentimenti, intuizioni, ricordi”. Com’è tornare ai lettori e alle lettrici di poesia dopo otto anni di assenza?

 Simone Zafferani: «Sposo pienamente la posizione di Sereni; anche io sono convinto che il silenzio poetico non sia una colpa né una vergogna. Il poeta non sa mai con certezza che tornerà a scrivere. Credo sia perché non ti senti mai “arrivato alla poesia” in via definitiva, non sai mai quanto a lungo ti resterà accanto. Sono stati anni, quelli compresi tra L’imprevisto mondo e L’ora delle verità, in cui ho fatto altro: ho scritto due testi teatrali, ho esplorato altri ambiti della mia vita, ho scoperto la dimensione della montagna che è poi confluita in questo nuovo libro; mi sono messo alla prova con la prosa. Tutto questo materiale di vita e scrittura accumulata è arrivato alla sua naturale destinazione quando l’ho sentito sufficientemente maturo per approdare a una forma. Il che vale a dire quando mi sono sentito sufficientemente libero di superare me stesso. Tre libri sono già un percorso, e dopo la pubblicazione del terzo ho dovuto ritrovare una libertà di scrittura di cui sentivo impellente il bisogno; il rischio, se non avessi perseguito quella libertà, era d’ingabbiarmi in un’unica forma di scrittura e di registro. Io amo sperimentarmi con una varietà di registri diversi, e volevo che il nuovo libro rappresentasse qualcosa di più dei precedenti, infatti è un libro enormemente più vasto. È stata una conquista per me il sentirmi libero di esprimermi in direzioni diverse.

In questo libro forse ho sentito di più la libertà di “portarmi” alla scrittura senza aspettare che la scrittura arrivasse a me. Ho capito quant’è importante non stare fermi ad aspettare che la scrittura si addensi, ma portare noi stessi verso la poesia.»


 L’A.: Qual è il nucleo originario del libro, e a che ora giunge “l’ora delle verità”?

S. Z.: Per me è arrivata a cinquant’anni. Le poesie che compongono il libro sono state scritte tra i quarantatré e i quarantasette anni, però hanno preparato il terreno a questo appuntamento importante. Il nucleo originario è proprio la sezione eponima L’ora delle verità, nella quale ho raccolto insieme delle poesie che hanno in qualche modo a che fare con degli svelamenti, che non sono verità assolute o definitive, ma momentanee e mutevoli, capaci però di scavare in profondità cogliendo l’essenza di qualcosa. La poesia deve portare al di fuori di sé un’autenticità – questa è una mia ossessione. Tutte le sezioni del libro fanno eco da angolazioni diverse (campagna, città, montagna, lago, le vite degli altri) a questo bisogno di autenticità, rispondendo a un imperativo ancestrale: raccontare, trascrivere, trasmettere nuclei di verità condivise. Non è un libro che consegna una verità a qualcuno, ma che offre delle verità che spero siano il più possibile condivise.

 

 L’A.: Scrive in una sua poesia: “E tu stai lì in segreto a celebrare / l’ultima liturgia di questo mondo, / la sua più sostenibile finzione.” L’arte – e dunque la poesia – è la “finzione” della vita? una realtà ricreata e infedele?

 S. Z.: La parola finzione nella poesia non ha mai l’accezione negativa dell’infingimento, ma ha la radice inglese della fiction, della trascrizione in arte della verità. La liturgia di cui parlo nella poesia è una celebrazione in senso rituale: è il sostenere, e portare a compimento, l’atto del trascrivere, cioè il restituire la realtà come mimesi, creazione. È il modo che ha la poesia di restituire la vita vera sotto una forma cifrata, allusiva, elusiva (perché la realtà nel suo insieme è insostenibile). Lo spiega perfettamente il Premio Nobel Thomas Tranströmer, il quale intendeva la poesia come traduzione di una lingua dietro le lingue comuni. Nel mio modo di scrivere vedo un atto sacrale che non è mistico né ascensionale, o evanescente; è semplicemente l’assumersi una responsabilità rispetto alla realtà.

 

 L’A.: L’ora delle verità è un libro composto anche da poesie scritte per delle occasioni. Vi sono poesie nate su commissione di riviste o antologie, altre pensate a partire da un racconto, una testimonianza, una scena. Senza dubbio è l’occhio il senso più allerta tra queste pagine, e l’occhio è “l’occasione della poesia”, registra e ruba e conserva. Si può dire che, in un certo senso, L’ora delle verità è un libro, se non propriamente “d’occasione”, almeno “di occasioni”?

 S. Z.: In questi anni in cui mi sono dedicato ad altro allontanandomi dalla riflessione sulla poesia, mi sono sentito più libero di cogliere la poesia allo stato sorgivo, senza pensare al come scrivere, ma allo scrivere. Questo fatto ha favorito la possibilità di cogliere in certe occasioni l’affiorare della poesia. Ho ridimensionato lo spazio del pensiero immediato e della folgorazione poetica, e ho esercitato maggiormente l’osservazione e l’ascolto, e inevitabilmente ne sono nate, da questo esercizio, delle poesie d’occasione. Da ogni occasione poi ho sempre alimentato il fuoco. Anni fa dissi che il rapporto tra ispirazione e disciplina è come quello tra la scintilla e il fuoco: l’occasione deve farsi combustibile per la poesia, che è la fiamma. Rispetto ai miei libri precedenti (Questo transito d’anni, Da un mare incontenibile interno, L’imprevisto mondo, n.d.r. ) mi sono sentito più libero di accogliere ciò che veniva dall’esterno. Se è vero che la poesia è sempre un alternare il verticale e l’orizzontale, nell’Ora mi sono riscoperto meno verticale del mio solito.

Se ripenso ad alcune cose vertiginose del mio secondo libro… erano poesie densissime e accumulative, iper versificate, stratificatissime. Queste nuove sono poesie più accessibili, e questa maggiore chiarezza è data da un rapporto costante con l’esterno e con le cose che mi vengono incontro, con l’occasione appunto – un modo di porsi di fronte alla realtà in maniera meno dominante: “quando la strada ti guida tu sei tu”. Ho smesso di pretendere d’avere sempre io la bussola in mano. È un affidarsi agli immediati dintorni, alla vita che accade inarrestabile fuori da te.

 

 L’A.: Qualche tempo fa Giulio Ferroni affermò che non è più il tempo delle poetiche, che sono ormai estinte, che è sempre più raro – se non impossibile – scorgere all’interno della produzione di un autore una visione progettuale della poesia. Sente queste affermazioni vere per lei, per il suo percorso individuale e, allargando il cerchio, per la sua generazione? 

 S. Z.: Sono sempre stato insofferente alla parola “poetica”, perché mi sembra che una poetica si possa dedurre solo a posteriori, a meno che non si voglia ridurre la complessità della scrittura. Sono anche uno di quelli che provocatoriamente dice “non esiste la poesia, esistono le singole poesie”. Senza nulla togliere al tentativo di mappare la poesia esistente, penso sia limitante individuarsi e pensarsi all’interno di una poetica. La nostra stessa scrittura è destinata a sorprenderci e a mutare nel tempo. A livello individuale non credo di star tracciando una poetica, ma questo lo potrà dire solo un futurissimo lettore.

A livello collettivo e generazionale, credo sia un bene l’esserci liberati dall’obiettivo di tracciare e riconoscerci in poetiche e etichette comuni, cosa che andavamo forse cercando negli anni ‘80 e ‘90. La cosa buona di questo millennio, che è il risvolto della dispersione, è l’essere più liberi, e il poterci ridefinire a ogni passo. Certo, questo procedere in libertà rende poco visibili alcune linee o tendenze, soprattutto per la mia sfrangiata generazione; c’è chi insiste sulla vena civile come risposta all’appuntamento mancato con la Storia. Altri se ne disinteressano completamente. Questo ti dice quanto la mia generazione sia sfaccettata: possiamo toglierci dall’imbarazzo di dover essere poeti di un certo tipo. Io vivo il mio tempo come un terreno di riconquista, di riposizionamento della poesia in un territorio non ancora orientato, mappato, predefinito. Se penso ai poeti che più amo, sono poeti che sono sfuggiti alle macro o micro categorie, che non si sono fatti “schedare”: Amelia Rosselli, quando fu assimilata alla neoavanguardia, disse: “io sono una che sperimenta con la vita”. Come a dire: non ho bisogno di sperimentare forzosamente con il linguaggio.

 

 L’A.: E in questa ricerca libera e sfrangiata della propria voce all’interno della sua generazione (quella dei poeti post ’68), che ruolo ha svolto l’editoria poetica?

 S. Z.: La mia generazione ha scontato una progressiva chiusura degli spazi della poesia, vivendo una grande delusione. Si è trovata a dover inseguire gli editori, a lottare per avere una visibilità, quando l’editoria dovrebbe raccogliere e accogliere i talenti e valorizzarli naturalmente. Questo fino agli anni Ottanta. Negli anni Novanta i miei coetanei rincorrevano il sogno della pubblicazione nelle grandi collane (Lo Specchio, la Bianca einaudiana, la poesia di Garzanti…). Questo rincorsa disperata potrebbe essere materia per un dramma, ma oggi possiamo dire che il mito della grande editoria l’abbiamo deposto, preferendo un’editoria seria, magari più piccola, ma di qualità. Il mito del grande editore ha dato vita spesso a false aspettative, a promesse non mantenute. Questa consapevolezza è affrontata con serenità, oggi. In passato, però, la mia generazione ha patito enormemente quella chiusura. Sarebbe un errore pensare l’editoria odierna con i parametri di ieri. Se si sa selezionare, se ci si affida a collane dirette da poeti seri e onesti, si può scampare il rischio della dispersione, e si riesce ad arrivare dove si vuole arrivare.

La mia generazione ha dialogato più con i maestri che con i propri coetanei. Era un modo per accreditarsi, per avere dei contatti, ma era anche un atteggiamento dettato da un senso di solitudine generazionale – una congiuntura storica: la mia è stata la generazione cresciuta, negli anni Ottanta, nel mito del personalismo, nell’idea che il collettivo fosse scomparso, che non era più necessario aggregarsi attorno a idee forti condivise. È una generazione cresciuta in grandi masse, tra eventi partecipati e moltissime letture pubbliche, ma fondamentalmente in solitudine. Una solitudine poetica ma soprattutto storica. Non abbiamo portato avanti delle vere e proprie battaglie; per questo dicevo che i poeti miei coetanei che scrivono poesia civile sembra che debbano risarcire con la scrittura una mancanza storica.

Ci siamo sottratti al dialogo tra coetanei. Ora forse, assestati o rassegnati, cominciamo a guardarci tra noi e, finalmente, a riconoscerci.