L'Amletico

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È il talento o l’impegno a determinare il successo di uno scrittore?

Pare che Nabokov abbia detto, “Esiste una sola scuola: quella del talento” e credo che questa sia la dichiarazione, tra le tante in cui mi sono imbattuta da quando ho iniziato la mia indagine sulla scrittura, che più di tutte mi ha lasciato in dubbio sulla sua veridicità.

Ma come Vladimir, proprio tu? Colui che organizzava i suoi scritti in schede e poi in faldoni, per il quale stile e struttura erano tutto? Non l’avrei mai detto.

C’è una cosa su cui ho fatto chiarezza da quando mi sono tolta dalla testa l’idea che l’arte dovesse per forza andare a braccetto con la sregolatezza: il talento da solo non serve poi a molto. Mi sembrava che su questo la maggior parte dei grandi autori fosse d’accordo. Lo stesso Stephen King, prolifico al punto da sembrar essere guidato da una luce divina che accompagna la sua mano sul foglio, ha sottolineato che “ciò che separa l’individuo di talento da quello di successo è un sacco di duro lavoro”.

Se da un lato condivido poco l’idea di successo – non mi sembra l’unico metro di giudizio a sostegno della qualità di un’opera – dall’altro mi trovo del tutto d’accordo quando viene citato il duro lavoro.

“Ha le capacità, ma non si applica”, recita un vecchio adagio. Nonostante questa frase riesca ancora a provocare i brividi nei ricordi di qualcuno, è a partire da qui che ho iniziato a pensare a talento e impegno più come a un’unione che come a una dicotomia. Per dirla con le parole di David Foster Wallace, “Il talento è solo uno strumento. È come avere una penna che scrive invece di una che non scrive.”

In un anime che guardo a tempo perso – si chiama Food Wars e parla di cucina, se volete farvi due risate – il ragazzino protagonista si impegna anima e corpo per raggiungere il suo obiettivo di diventare un astro nascente dell’arte culinaria. E a un certo punto, suo padre dice qualcosa del genere: quando perdi contro qualcuno che ha talento, ti metti un coperchio sul cuore e lasci perdere, ma tu questo coperchio non ce l’hai. Non che lui non sia dotato, ma nemmeno si fa abbattere quando si trova faccia a faccia con chi lo è di più. Come a dire che il talento ti può far vincere i cento metri, ma l’impegno e la costanza ti fanno vincere la maratona.

Ma torniamo alla letteratura. Avevo promesso di parlare di Philip Roth.

Le frasi più dense sul mestiere di scrivere Roth forse le ha dette quando quel mestiere già lo aveva lasciato. In un’intervista al New York Times di quel periodo, il giornalista nota che attaccato al computer dello scrittore c’è un post-it con su scritto “The struggle with writing is over”. La lotta con la scrittura è finita.

Nel campionario di figure professionali e non dell’immaginario collettivo, non credo sia presente uno scrittore che smette di scrivere e se ne dica sollevato. Uno sceglie di fare lo scrittore. Se poi ha pure la fortuna di essere pubblicato, letto e amato, perché mai dovrebbe essere contento di smettere?

Ma “lo scrittore è colui che più di chiunque altro ha difficoltà a scrivere” (grazie, Thomas Mann) e scrivere è una faticaccia, “una frustrazione quotidiana, per non parlare dell’umiliazione”, dice Roth. Allora otto anni prima di morire decide di smettere di affrontare la pagina come aveva fatto per cinquant’anni, chiudendosi da solo per settimane nello studio vicino alla sua casa nel Connecticut, dove scriveva in piedi (sì, proprio come Hemingway). Insomma il talento di cui pure era provvisto, senza l’ostinazione della sua frase più famosa e che a suo dire gli ha salvato la vita, da solo non bastava.

Che il talento esista o no a prescindere dall’impegno è un quesito che voglio lasciare aperto.

Se dovessi esprimere un’opinione personale, direi che il talento per me sta nelle ultime pagine del racconto Cattedrale di Raymond Carver. Un uomo cieco chiede al protagonista di disegnare per lui una cattedrale, dopo che quest’ultimo è rimasto frustrato nell’intento di spiegargli a parole come fossero fatti questi edifici. Poi chiede al protagonista di continuare a disegnare chiudendo gli occhi, e fino alla fine del disegno entrambi si trovano nella stessa condizione di cecità. Ma passando la mano sui contorni tracciati a penna, tutti e due comprendono.

Il narratore talentuoso fa lo stesso: pur attraversando quella frustrazione, riesce a disegnare una realtà che il lettore, normalmente, non vedrebbe. Anche se ha lui stesso gli occhi chiusi.