Tre modi di ridere all'italiana
In questi giorni di pioggia, di festa e di clausura, è facile esaurire le idee sul da farsi e ritrovarsi annoiati, ma è anche il momento perfetto per riscoprire la comicità italiana di un tempo, quell’ironia popolare e genuina che è tanto parte dell’Italian Style.
Vi propongo tre classici imperdibili, capolavori dei nostri attori di qualche decennio fa: sono un po’ datati certo, ma non potete assolutamente lasciarvi scappare queste pellicole, le cui battute sono entrate a far parte del vocabolario quotidiano di molti italiani.
Sprimacciate i cuscini e preparate i pop corn!
-Totò, il principe della risata-
Antonio de Curtis è stato, ed è tutt’oggi, uno degli attori italiani più famosi al mondo; e non è difficile capire il perché. I suoi film sono figli della sua esperienza teatrale e ricalcano i siparietti dell’epoca post-bellica, antenati di quella cultura della risata che ha visto nascere personaggi, e attori, ancora ineguagliati.
Scegliere uno solo dei film di Totò è davvero complicato, ognuno di essi porta con sé frasi iconiche, come “Lei con quegli occhi mi spoglia, spogliatoio!” da Totòtruffa ’62 o “Signori si nasce, e io lo nacqui, modestamente!” da Signori si nasce, idee geniali e trame inverosimilmente credibili che poggiano i loro pilastri sulla commedia degli equivoci e su esperienze reali, con compagni di viaggio di incredibile spessore, da Aldo Fabrizi a Fernandel a Vittorio de Sica, per citarne solo alcuni, sullo sfondo di trent’anni di storia, non solo del cinema, italiana.
Il principe de Curtis, maestro assoluto dell’arte recitativa, entra a far parte persino di quel meraviglioso movimento cinematografico, artistico e storico-sociale, che è la commedia all’italiana, con meritatissimi camei e ruoli in film dello spessore di I soliti ignoti di Mario Monicelli, capostipite di tutto il filone, e Operazione San Gennaro di Dino Risi.
Voglio prendermi il lusso di barare, scegliendo non una, ma due pellicole, entrambe filmate nel 1956 dal regista Camillo Mastrocinque, ed entrambe sostenute da quell’intramontabile e perfetto duo comico che è Totò-Peppino De Filippo.
La banda degli onesti
Un portiere, un tipografo e un disegnatore di insegne, si ritrovano in possesso di una matrice delle diecimila lire autentica e della relativa carta filigranata e decidono di entrare in società per stampare denaro illegalmente. Ma il giovane figlio di Totò ha appena avviato quella che sembra una fiorente carriera nel corpo della guardia di finanza, proprio nella sezione che si occupa della circolazione di moneta falsa.
Cosa succederà?
È una trama semplice, ma perfettamente congeniata, ed è proprio questo connubio tra modestia narrativa e raffinatezza esecutiva che colloca il film tra gli imperdibili, consacrando quel sodalizio artistico che sarà per sempre Totò e Peppino.
Totò, Peppino e i fuorilegge
Marito di una moglie ricca, austera e tirchia, mette a punto un piano: fingere di essere stato rapito dalla ben nota e crudele banda di Ignazio detto “il Torchio”. Chiede così un succoso riscatto per andare a Roma con il suo fido amico e complice a godersi la bella vita… ma la televisione li riprende in un sontuoso locale della capitale, e indovinate un po’ chi li vede?
Assolutamente geniale, la sceneggiatura sembra scriversi da sola, è punteggiata da tanti personaggi, come la figlia di Totò stesso, che capisce l’intento del padre ed è fiera della sua intraprendenza, o il fidanzato della figlia, giornalista in erba che cerca lo scoop della vita, e infine l’immensa Titina De Filippo, parte della gloriosa triade Eduardo-Peppino-Titina (è la sorella maggiore dei due), che regge magistralmente il confronto con la sacra coppia, complice tutta la sua esperienza, che la rende presenza salda e indispensabile alla riuscita della storia.
Indimenticabile la scena del pozzo dei rospi, esilarante dall’inizio alla fine.
Il volto di Totò è una maschera che sarà sempre parte della cultura del nostro paese: espressiva come nessuna e riconoscibile tra infinite altre, ci ha donato altissimi momenti di cinema, creando quell’attore che mai più si è scollato dal suo personaggio; singolare, sì, perché se i ruoli che ha interpretato sono innumerevoli, il carattere rimane lo stesso, ingenuo e furbo allo stesso tempo, leale e distratto, sgrammaticato e ingegnoso, nobile e popolare, sembra non percepire più il velo che separa la vita dalla scena, si finisce così a non comprendere più se si sta guardando il Totò-attore o il Totò-personaggio, come le personalità della commedia dell’arte Goldoniana, che sopravvivono ai loro attori e diventano simbolo delle esperienze umane.
-Non ci resta che piangere-
1984. Durante una passeggiata pomeridiana in macchina, due amici, Mario e Saverio, a causa di un passaggio a livello chiuso, e cercando una via alternativa, si perdono nelle campagne circostanti. Vengono colti da un temporale notturno e si ritrovano costretti a rifugiarsi in una vicina locanda per la notte. Si risvegliano nell’anno 1492.
I protagonisti, Roberto Benigni e Massimo Troisi, sono anche i registi del film.
Da subito si delineano le caratteristiche dei due: Benigni più intraprendente e curioso, e Troisi, pauroso e diffidente.
Nonostante alcune inesattezze –più che perdonabili, in fondo non lo si guarda certo con intenti documentaristici- il film trascina come un fiume in piena, tra dialoghi epici, come “Yesterday, bom bom…” (momento in cui immagino sempre il fragore improvviso delle risate al cinema) o “Chi siete? Cosa portate? Un fiorino!”, e incontri surreali.
Il film si divide in tre parti: la scoperta del luogo che si ritrovano ad abitare, una sorta di quotidianità riscoperta, che vede la messa in discussione del rapporto di amicizia dei due, e il viaggio per fermare Cristoforo Colombo ed impedirgli di raggiungere le Americhe.
Ogni sezione vede la conoscenza di varie personalità, come le due adorabili presenze femminili più meritevoli: l’incantevole Amanda Sandrelli, “la più ricca del paese”, che intreccia una casta relazione con il timoroso Troisi, e tende a ripetere alcune parole fino quasi a perdere il fiato; e la donnina Parisina, madre di Vitellozzo, la quale preferisce Mario (Troisi) a Saverio (Benigni), coniando la frase “Grazie Mario”, diventato modo di dire quotidiano tra molti di noi.
Leggendario diventa l’incontro con Leonardo da Vinci: i due lo approcciano fingendo di ragionare di scienza, chiedendogli pertanto un consulto su alcune invenzioni. Le parole sconclusionate dei due, i quali gli parlano di oggetti moderni dando per scontato alcuni principi, lo declassano a mero uomo che “manco a scopa” impara a giocare.
La recitazione dei due è spontanea, figlia della loro collaborazione e della libertà che deriva dall’essere registi e interpreti del proprio film, e conduce verso momenti palesemente improvvisati, come la scena del vascone “per le pecore”, e risate non volute e malamente celate, ma graditissime per la gioiosità che manifestano.
Il linguaggio dialettale, sebbene sia a volte faticoso, contribuisce a dare veridicità alla vicenda, facendo incontrare il toscano con il napoletano stretto, due idiomi fortemente emblematici della nostra penisola.
Nonostante la modernità che si insinua in queste scelte recitative, è evidente la presenza di salde basi radicate nel nostro cinema: come non notare il gigantesco omaggio a Totò e Peppino durante la stesura della lettera indirizzata a Savonarola?
Benigni e Troisi sembrano due compagni di scuola che ridacchiano durante le prove della recita scolastica, ma che alla fine producono un capolavoro indimenticabile.
-Il Marchese del Grillo-
Cosa si può dire riguardo la maestosa opera del maestro Monicelli?
Durante la Roma papalina del XIX secolo, un Marchese della vecchia nobiltà capitolina, rimedia alla noia crescente facendosi beffe di chiunque gli capiti sotto tiro.
Fondamentalmente questa è la trama, ma certamente non si può ridurre a questa misera punta di iceberg.
Alberto Sordi è la maschera scelta per interpretare Onofrio del Grillo, e credo si possa dire, senza esagerare, che gli calzi a pennello.
Personaggio popolano, ma profondamente conscio del potere derivato dai suoi titoli, il marchese non risparmia neppure il Papa, interpretato da Paolo Stoppa, il quale lo considera come una sorta di filgiol prodigo, stimandolo per la sua esuberante sincerità, ma sgridandolo per la noncuranza che accompagna le sue azioni.
Il Marchese del Grillo si presenta come una carrellata di scherzi, tiri mancini creati ad hoc per ognuna delle sue vittime, beffe architettate sulla base delle usanze e credenze dei poveri conoscenti di Onofrio, che si ritrovano a subire senza pietà la mano incontestabile della nobiltà.
Sotto questo punto di vista, il film si delinea, in alcuni punti, come denuncia sociale: mi riferisco, senza dubbio, alla parte dedicata ad Aronne Piperno, l’ebanista giudeo, il quale è obbligato a soccombere alle accuse più ingiuste perché “povero e giudeo” mentre il marchese è “ricco e cristiano”. Ma qui la contestazione non è affatto velata, è anzi esplicitamente spiegata dal marchese stesso a Papa Pio VII; quest’ultimo lo convoca chiedendogli spiegazioni per aver fatto suonare le campane a morto in tutte le chiese di Roma: Onofrio racconta la vicenda dell’ebanista spiegando che è la giustizia ad essere morta, e la risposta del Papa dimostra tutta la rassegnazione di anni di scorrettezze verso i più deboli “La giustizia non è di questo mondo, ma dell’altro”.
Tutti i personaggi sono profondamente delineati e caratterizzati, non solo per il fatto di essere tutti caratteri più o meno tipici, ma anche e soprattutto perché Monicelli dà ad ognuno di loro la possibilità di “esibirsi” sul palcoscenico del film.
La Marchesa, madre di Onofrio, severa e crudele non riesce a farsi ubbidire dal figlio, è attaccata saldamente alle tradizioni nobiliari del passato e non accetta l’avvenire; la cugina Genuflessa, impaurita dalla zia bacchettona, finge di essere timorata di Dio, e invece ha una gran voglia di divertirsi; la sorella del Marchese con una mefitica alitosi e per la quale viene mandata lontano con il marito; il parroco di palazzo che deve continuamente assolvere il nipote pre-adolescente di Onofrio per atti impuri; una delle serve del Marchese che ha una relazione con lui…
Non importa quanto piccola possa essere la parte che recitano, ogni battuta di ogni attore è così congeniale al proprio personaggio che bastano poche parole per comprendere perfettamente ogni sfumatura che lo caratterizza.
Giorgio Gobbi interpreta la spalla di Sordi, Ricciotto, servo e complice, “mi segue ovunque vado” dice il Marchese: è interessante notare come egli presta cieca fedeltà, non alla famiglia del Grillo, ma solo a Onofrio. Questo aspetto, non solo rivela come Ricciotto sia fondamentale per la riuscita degli scherzi architettati dal suo protettore, ma, sentendosi da lui tutelato non ha timori nell’aiutarlo a portare a compimento beffe persino contro i del Grillo, dimostrando così come Onofrio sia il membro più potente della famiglia.
Incommensurabile la prova attoriale di Flavio Bucci, che interpreta Don Bastiano, un prete scomunicato a capo di un gruppo di briganti: anche qui il discorso tra Onofrio e Bastiano è una denuncia esplicita contro la chiesa cattolica.
È curioso sapere che il rapporto tra Sordi e Bucci era caratterizzato da una grande rivalità: considerando il profondo legame che i due personaggi sembrano avere nel film, ci si può fare facilmente un’idea del loro grande talento attoriale.
Il film non manca di scene erotiche, tre in particolare, tutte caratterizzate da intenti e modalità diverse: ovviamente non ve le racconterò, mi limito a dire che la prima che ci viene mostrata ha carattere comico-grottesco, la seconda è un meraviglioso e statuario nudo di donna, e la terza è il vano e misero tentativo di rivalsa di uno dei personaggi.
Molte sono le incongruenze storiche della pellicola, soprattutto la sezione dedicata alla presa di Roma da parte dei francesi, avvenuta realmente nel 1808, mentre nel film siamo nel 1809, e il dialogo che il Marchese ha con uno dei soldati incontrati sul suo percorso durante il viaggio verso Parigi, ha anch’esso degli errori di datazione.
Il Marchese del Grillo è un film pieno di battutacce e volgarità, non mi sentirei mai di etichettarlo come “film per tutti”, ma sono orpelli necessari per calarsi nei bassifondi di quella Roma popolare, che ha bisogno di essere meschina e brutale per sopravvivere, per contrastare quella finta eleganza dei palazzi nobiliari, adorni di pesanti tende di velluto e polvere, con quell’odore di vecchiume e di decadenza che tutto il film sembra emanare, quella nobiltà fedele al Papa e alle tradizioni, intoccabile per nascita, privilegiata non dalla virtù, ma dal nome, quei titoli che la salvano qualsiasi cosa accada, perché “Io so io, e voi non siete un cazzo!”.