L'Amletico

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ll migliore dei futuri possibili

– Dovresti riposare.

La voce in chiave di basso di lui mi rimbomba dentro, tra le viscere. Mi ha appena visitata. Un lampo elettrico mi trapassa il cervello, per un attimo non vedo niente. Sono stanca. Il flash mi lascia dei residui di luce, quando chiudo gli occhi sono ancora lì.

– Sto bene. È solo un po' di mal di testa.

– Chiamami a qualsiasi ora, d’accordo?

Mi tocca il braccio come per imprimere sul mio corpo quella frase. Come se non vedendolo io abbia bisogno di sentirlo sulla pelle.

Fuori piove. Lui mi guarda e non dice altro, si stringe in quel silenzio che mi propina quando non sa cos’altro dire, con quel modo che ha di stringere le labbra, come se avesse mangiato qualcosa di troppo aspro.

– Vuoi che rimanga qui?

Sa già la risposta, lo ha chiesto per cortesia ma non vuole rimanere.

– No Stanislaw, sto benissimo, davvero, non è il caso.  

Lui schiude le labbra per dire qualcosa ma cambia idea all’ultimo.

– D’accordo allora.

I suoi occhi deragliano per un attimo da me, si perdono in un punto non precisato, sta consultando qualcosa su Internet.

– Pioverà tutto il giorno, – conclude con un sorriso triste.

Scandaglia il mio viso e poi il corpo, come se solo con lo sguardo possa avere le risposte che cerca. Il girovagare dei suoi occhi su di me mi fa sentire sporca e sbagliata. Con le maniche, senza volerlo, copro le mani perfette, nuove. Sono sporca e sbagliata.

– Dovresti andartene.

– Ah, io… certo, vado, scusami.

Un nuovo silenzio si insinua tra noi, sempre più denso ma che lascia filtrare il suo nervosismo. Le sue mani nella tasche, le gambe rigide. Il suo chiedermi continuamente scusa.

– Allora vado.

Mentre si gira verso l’ingresso lo immagino scendere le scale e aprire il portone, mentre il mondo e la pioggia lo investono infrangendo quel silenzio che è tanto bravo ad infliggermi.

– Ciao Stan.

Lui mi guarda senza dire niente, di nuovo.

Lo sento scendere i gradini, non prende mai l’ascensore per qualche strana ansia tutta sua. Il famigerato biochirurgo della LightCyber che ha paura degli spazi chiusi! Stavo per chiudere la porta quando dice qualcosa da due o tre piani sotto. Il riverbero della tromba delle scale distorce la voce, non sono sicura di quello che abbia detto. Quando esco sul pianerottolo faccio per chiamarlo ma lui è sparito.

Un altro lampo elettrico, un turbine di luce, mi oscura la vista lasciandomi senza fiato. Mi accascio a terra con tutti gli arti chiusi in una morsa di dolore.

Sento male ovunque, mi viene da vomitare.  

 

Il mal di testa peggiora, mi sembra perfino di avere la vista ristretta, come se stessi guardando la realtà tramite un binocolo. Non è mal di testa, non proprio, è il mio io che rigetta questo cazzo di corpo. È la prova finale della coscienza rinchiusa in un involucro.

Prendo una pillola delle dimensioni della capocchia di uno spillo, è minuscola ma al suo interno c’è un concentrato di monoamine sintetizzate con il gravoso compito di rimettere in sesto i miei neurotrasmettitori e farmi credere che quello che sta succedendo sia del tutto normale.

Cazzate.

Le monoamine dovrebbero riportare in sesto i miei livelli di dopamina e noradrenalina ma la verità è che non ho idea di quello che succeda davvero nella mia testa perché gran parte dei collegamenti neuronali che mi tengono ancorata a questo corpo sono artificiali. Il reuptake della serotonina arriva in pochi minuti così ne approfitto per prepararmi. Impiego un tempo incredibilmente lungo per indossare la camicia; faccio una gran fatica a far passare i bottoni nelle loro minuscole dannate asole, come se le mani fossero infinitamente grandi e tutto il resto troppo piccolo. Non ho forza nelle gambe, i pantaloni non vogliono risalire e la cinta è troppo dura. Sudo per fare il nodo ai lacci delle scarpe  e tra una e l’altra faccio una pausa per riprendere fiato.

Mi lascio andare sul letto, sfinita. Un lampo, stavolta vero, trapassa il cielo mattutino troppo grigio. Le luci di casa si attenuano per un attimo, la pioggia si fa ancora più intensa. Vorrei non dover uscire ma ho paura che se non adempio ai miei doveri il “mal di testa” possa peggiorare, che quei flash di luce possano intensificarsi. Ho paura che tutto crolli di nuovo. Allora compio l’ultimo sforzo e metto il cappotto. Le braccia tirano, i nervi rallentano, i muscoli si irrigidiscono quando infilo le maniche. Non vedo l’ora di raggiungere la pioggia.

 

Il cielo livido oscura le larghe vie della periferia. Sembra sera, la nebbia circonda i vecchi palazzi come in un brutto sogno. Allungo la mano ma non sento l’acqua ticchettare sulla pelle.

Controllo il meteo nel mio hub visivo: una piccola finestrella trasparente appare al lato della mia visuale; Stan aveva ragione, la pioggia non cesserà. Potrei aspettare un bus ma qualcosa dentro mi dice di andare a piedi, che una passeggiata nella pioggia non potrà che farmi bene. Apro l’ombrello e vado.

Le scarpe si bagnano dopo pochi passi ma la membrana anti pioggia di cui sono ricoperte mi lascia all’asciutto, così come i pantaloni. Devo raggiungere la clinica per la routine di controlli settimanali.

Il buio temporalesco fa spiccare le luci dei grattacieli troppo vicini: le spire della città si stanno allargando fino a noi, la periferia, un tempo così lontana dal chiasso e dalla vita frenetica del centro. I grattacieli sono sempre più vicini e i nostri piccoli palazzi rettangolari e grigi, adesso, nella pioggia, sembrano perdersi come tante voci in una piazza troppo grande. Sembrano così lontani gli anni in cui per raggiungere il centro di Roma ci volevano due ore di auto.

Supero alcuni palazzi fatiscenti e abbandonati (diventeranno grattacieli?) e lo schermo di una pensilina degli autobus mi ricorda che se viaggio con loro posso avere uno sconto per il parcheggio della clinica. Lo schermo mi si rivolge per nome: Ashby, dice, compra un biglietto Atar e non perderai più tempo! Solo io posso sentire quello che dice perché lo schermo è collegato ad Internet e tutti noi, me compresa, siamo connessi incessantemente alla rete. Le pubblicità si insinuano nei nostri ID per un’esperienza del tutto personalizzata.

La pubblicità sullo schermo cambia, i colori da caldi diventano freddi, spiccando nel buio lattiginoso tutto intorno.  Sul fondo bianco si disegna un cerchio trafitto poi da un raggio luminoso che si addensa e scurisce fino a prendere le sembianze di una mano aperta con dentro un cuore di natura meccanica. È il logo della LightCyber Corp., la società che costruisce le protesi artificiali per milioni di persone. La società che ha costruito il mio corpo grazie agli studi sulla biomeccanica di Stan. Stringo le mani in un pugno, faccio per andarmene prima che il viso inespressivo della pubblicità trovi il modo per irretirmi.

– Ashby, – devono aver risalito i gangli e scavato a fondo la mia corteccia cerebrale perché la voce bambinesca e sinuosa della pubblicità fa leva sul mio istinto materno.

– ascoltami,

e mi fermo…

– c’è una cosa

…ad ascoltare…

– che

la voce è così familiare…

– devo

…da sembrare…

– dirti.

mio figlio.

– Ashby, il tuo battito cardiaco è accelerato, la percentuale di noradrenalina e serotonina è in diminuzione. Alcune delle tue terminazioni nervose sono interrotte a causa di…

– Smettila. – faccio per andarmene, cerco di silenziare la pubblicità ma ho ancora dieci secondi di ascolto obbligatorio.

– Dovresti passare in uno dei nostri laboratori per una visita gratuita. Possiamo migliorare la tua vita così come ne miglioriamo a migliaia ogni giorno.  

Stringo i pugni. Sento le unghie penetrare nella carne sintetica. Il dolore mi rende viva.

– Queste pubblicità cominciano ad essere davvero invadenti.

Una voce fende la pioggia, mi arriva attutita come fosse distante chilometri. C’è una signora ad aspettare l’auto, a riparo dall’acqua sotto il tetto della pensilina. Non una signora, una ragazza, dopo averla guardata meglio il suo volto si illumina di un sorriso gentile. Mi sembra di riconoscere quel sorriso affettuoso ma la mia mente è lenta, ferruginosa.

– Scusami, non volevo disturbarti.

– Nessun disturbo, io devo andare…

– Verso l’ospedale.

– Come scusa?

Porta una mano al petto, con l’indice ticchetta verso la scapola.

– Il cartellino. – dice senza perdere il sorriso.

Dott.ssa Ashby Rossington, il cartellino spunta dalle pieghe del cappotto sbottonato. Un’altra vita sembra ergersi sopra questa realtà sbiadita.

– Scusami, ti sto importunando. – c’è qualcosa di triste ed infinitamente gentile nel suo comportamento. I suoi occhi chiari, verdi come un prato irlandese, nascondono un abisso in cui ho un disperato bisogno di non cadere. Lo sento.

– Chi sei? Ti conosco? Io ho subito un intervento, – mento – e non ricordo tutto con chiarezza.

L’autobus arriva senza far rumore, un relitto di almeno vent’anni, le portiere si aprono lentamente come le fauci di un gigante troppo stanco.

La ragazza tira fuori qualcosa dalla tasca del cappotto, una busta da lettere. Non ne vedevo una da…

– Tieni, – me la porge – al momento opportuno la aprirai e andrà tutto meglio.

La ragazza imbocca le porte centrali del bus. Poco prima di sparire nella folla dei pendolari si gira verso di me, alza un braccio in segno di saluto:

– È ciò che porti di sconosciuto in te che ti rende te stessa.

Sono lenta, troppo lenta, il tempo che impiego per realizzare quello che mi ha detto è abbastanza lungo da far chiudere le portiere e l’autobus si allontana sparendo nella nebbia.

Esito un attimo. So bene cosa sia quella lettera. Un altro lampo mi trapassa il cervello, stavolta è come se una spada mi abbia trafitto senza pietà. Quando i residui di luce del lampo si attenuano la osservo e me la rigiro tra le mani.

Per Stan, c’è scritto sopra.

Mi viene la nausea, un macigno che tenta di farsi strada tra le mie viscere.

È la mia calligrafia, lo so.

Porto una mano alla pancia e distendo le dita. Per la prima volta sento qualcosa.

 

 

 

Da qualche parte nel passato

 

Stanislaw Arasaka, biochirurgo, aveva solo trentadue anni ma grazie alle sue teorie avveniristiche – e blasfeme per alcuni – sugli impianti bioartificiali, la sua fama era accresciuta tanto da essere invitato nelle maggiori università del paese.

  Entrò in aula, fradicio di pioggia. Nel sedersi al banco premette la schiena contro il legno della sedia, sentendo addosso tutta l'acqua che aveva preso in soli dieci minuti di cammino. Aveva dimenticato l'ombrello a casa, di nuovo. Si guardò intorno, la sala era gremita, provava un po' di agitazione con una punta di orgoglio. Sedette in prima fila, in attesa. Una ragazza gli chiese se poteva sedersi vicino a lui, le disse di sì senza nemmeno notarla, era troppo concentrato. Un uomo entrò in aula, ritto di fronte alla cattedra attese qualche istante, chiese il silenzio e prese la parola.

– Signore e signori, sono il professor Austin. Per chi non lo sapesse, insegno Ingegneria Medica in questa facoltà, da oltre trent'anni. – il professore sorrise, scandagliò l'aula passando in rassegna gli studenti. – In questi ultimi anni tante rivoluzioni ci hanno…

– Ora si prenderà tutto il merito della faccenda.

– Cosa?

Stanislaw rinvenne come da un sogno, la ragazza che prima gli aveva chiesto il posto ora aveva detto qualcosa ma lui era troppo emozionato.

– Il professor Austin, ora si prenderà il merito di aver organizzato questo corso.

– Ah! Certo, tipico di lui.

– Che poi dai, parliamoci chiaro, – continuò lei a bassa voce e con aria divertita – le teorie di Arasaka sugli impianti artificiali sono del tutto assurde.

Stanislaw volse lo sguardo verso di lei, guardandola davvero per la prima volta. È bellissima, pensò perdendosi nel suo sorriso e negli occhi scuri, neri quasi, che risaltavano come lanterne buie in un cielo troppo bianco.

– Ma ora bando alle ciance, – continuò a dire il professore – vi lascio nelle sapienti mani del nostro ospite d'eccezione: il dottor Stanislaw Arasaka.

L'aula applaudì, Stan si alzò continuando a guardare la ragazza. Lei divenne rossa ma invece di provare imbarazzo, rise. Lester accompagnò la sua risata con un sorriso divertito rimanendo in piedi a fissarla per qualche altro istante mentre l’aula scoppiava in uno scrosciante applauso. Stan sperò che quel momento durasse per sempre: lui che guardava lei mentre ancora non si conoscevano, tutto era in divenire, tutto era solo futuro.

Stan raggiunse la cattedra, aveva la mente completamente vuota e, come un faro, vedeva solo la luce di lei.

– Mi chiamo Stan Arasaka, – con un tremito della voce volse lo sguardo verso l’aula, tutte quelle persone che lo ascoltavano, lo ammiravano. Forse non tutte, pensò guardando ancora con lei, – voglio parlarvi di come la mia tecnologia di impiantistica potrà salvare molte vite.

Lei lo guardò, i suoi occhi ridevano senza staccarsi un attimo da lui.

– So che molte delle mie teorie sono state considerate perfino blasfeme, che scaricare l’intera esperienza e coscienza di una persona su di un supporto fisico di memoria potrebbe essere l’ultima frontiera prima di perdere il nostro status di umani organici ma, – e nel dirlo tornò a guardare lei – potrebbe essere anche l’inizio di qualcosa di nuovo, l’alba della singolarità tecnologica che i futurologi vanno urlando da tanto. Potrebbe essere l’inizio di un futuro i migliore, il migliore possibile.

La classe lo ascoltò per le due ore successive. Ogni tanto lui posava lo sguardo su di lei, a sincerarsi della sua presenza e lei ricambiava lo sguardo, sostenendolo. Sembrava già avessero confidenza, di essere in combutta per qualche piano che conoscevano solo loro.

A fine lezione alcuni ragazzi raggiunsero Stan alla cattedra mentre era indaffarato a sistemare fogli e appunti. Gli chiesero ulteriori spiegazioni, altri sollevarono i soliti problemi etici che ormai conosceva fin troppo bene.

– Lei vuole mettere l’intera vita di una persona morta in un corpo nuovo, – fece un ragazzo – la persona che ne risulterà, sarà la stessa di prima, secondo lei? O sarà un’entità nuova – e questa era certamente la domanda peggiore.

– Io credo che questo sarà più un problema degli altri piuttosto che dell’entità che cambierà corpo, penso che…

– Entità? È questo che è per lei una persona?

– Io non credo nell’anima, mi dispiace, credo che la nostra persona risieda nei nostri ricordi e i ricordi nei collegamenti neurali del nostro cervello. Il nostro cervello è una banca data e come tutti i supporti può essere trasferito altrove, con la giusta tecnologia.

Il ragazzo che aveva posto la domanda rimase interdetto. Aveva arricciato le labbra mal celando disprezzo. Stava per aggiungere qualcosa quando venne interrotto.

– I problemi etici preoccupano anche me, – fa lei, la ragazza, – ma è innegabile che sembra tutto molto… affascinante.

L’altro sbuffò andandosene, rimasero solo loro.

– Pensavo trovasse assurde le mie teorie. – fece lui con tono lezioso.

– In realtà, non sono niente di che.

Sorrisero entrambi. Lui guardava la curva armoniosa del collo di lei, circondato da una leggera collanina argentata, mentre lei poggiava una mano sulla cattedra, piegandosi verso di lui, seducente.

– Quale problema etico la preoccupa? – chiese Stan con tono provocatorio.

– Tutti, per lo più. – lei abbassò lo sguardo, distaccandosi per un attimo dal gioco di seduzione che avevano messo in atto. – Che senso ha vivere così a lungo, oltre il dovuto?

– Ma io non lo faccio per l’immortalità, io lo faccio per dare un’altra possibilità a vittime di incidenti mortali, malattie incurabili.

– Ci sarà chi speculerà, chi non potrà permetterselo, chi lo userà per vivere per sempre.

– Ho fondato un’associazione per questo, avrà rilevanza politica e gestirà i fondi per la ricerca.

– E di chi sono i fondi? Chi paga sarà il primo immortale, non crede?

– Io lo impedirò. Non è per questo che…

– Mi dispiace. – fece lei – Mi è piaciuta la sua lezione. – tagliò corto lei, quasi a voler buttar fuori qualcosa che da troppo tempo teneva dentro. – Mi chiamo Ashby.

Lo sguardo che si scambiarono dopo era già colmo di promesse.

 

Ashby tornò a casa tardi, nella loro nuova casa. La LightCyber Corp. di Isaia Carter, il robotista più famoso del pianeta, aveva comprato parte dei brevetti di Stanislaw ad una cifra esorbitante e aveva cominciato la produzione di arti biomeccanici. C’erano state lamentele e poi rimostranze pubbliche: l’uomo aveva pezzi di ricambio artificiali ora, stava diventando pericolosamente troppo vicino alla macchina. Gli arti biomeccanici di Stanislaw, prodotti dalla LightCyber erano troppo simili agli arti umani, erano l’inizio di qualcosa di enorme. Stan stava lavorando agli organi interni, cosa avrebbe pensato l’opinione pubblica? Metteva da parte il pensiero, tuttavia, quando uno dei suoi arti veniva impiantato ad un bambino vittima di un incidente particolarmente grave o quando riusciva a far camminare ancora qualcuno che aveva perso entrambe le gambe.

Ashby, dopo il dottorato, era entrata a lavorare nella divisione Arasaka della LightCyber, si era occupata lei stessa della supervisione e della riuscita dei brevetti. Tornava molto tardi la sera, sempre stanca.

– Bentornata. – fece lui dal suo studio, una stanza piena di schermi, oloschermi e progetti tratteggiati in bianco su carta blu con disegni di organi biomeccanici. Regnava ancora il disordine, si erano trasferiti da poco e gran parte dei materiali che usava Stan giacevano accatastati in giro.

– Ciao! Com'è andata? – chiese lei.

– Così e così, non riesco a trovare un modo per sintetizzare le cellule di Kupffer presenti nel fegato. Senza di loro il fattore rigenerativo sarebbe incompleto e la tecnologia dei naniti di Isaia non è abbastanza avanzata per sopperire. – Stan si accorse della stanchezza di Ashby, non aveva voglia di stare a sentire anche i suoi problemi, non con tutti questi dettagli, almeno. – A te com'è andata? Sei molto stanca?

Lei fece un cenno con la testa, lo sguardo parlava da solo. Aveva gli occhi stanchi sì, eppure, semplicemente perché erano entrambi lì, erano felici. Lui andò a prendere due birre e gliene porse una mentre si sdraiavano sul divano. I primi tempi che si erano conosciuti passavano le serate a bere birra, un vizio che, col tempo, avevano cercato di marginare.

– Solo una? – chiedeva lei come una formula di prassi.

– Solo una.

A volte arrivavano a due. Quando ne avevano entrambi bisogno, raggiungevano le tre a testa e poi si fermavano.

– Vorrei vivere solo questo momento della giornata. – confessò lei.

– Quello in cui siamo sdraiati sul divano, intrecciati come i fili di una trama? – disse lui sorridendo.

– Sì, proprio questo.

Mentre bevevano non lasciavano mai che i loro occhi vagassero da altre parti. Nei loro sguardi c'era il sunto di tutti i loro pensieri, non avevano bisogno di altro per capirsi.

 

– Come mai non capisci mai quello che ti dico? – Ashby aveva gli occhi gonfi dal pianto, il nero della pupilla questa volta si perdeva nel rosso dei capillari tutt'intorno all'iride, come lampi in una tempesta.

– Mi avevi detto che andava bene! – Lester era seduto alla sua scrivania, stava lavorando a qualcosa al computer. Un piccolo puntino luminoso sulla tempia si illuminava palpitando come un cuore: era un processore che collegava l’impianto oculare allo schermo del computer. Lo stava testando, a breve sarebbe uscito in commercio col nome Arasaka  e il patrocinio della casa madre, la LightCyber.

Fuori la grande città era immersa nella pioggia.

– Ti avevo detto che dovevamo parlarne ma tu hai sempre la testa da un'altra parte. – lei si asciugò gli occhi in un gesto tutto suo: distese le mani e poi passò delicatamente i palmi sugli occhi per togliere le lacrime.

– Mi dispiace, ho molto lavoro ultimamente. – fece Stan abbassando lo sguardo, odiava vederla piangere.

– Credi che io non lo abbia?

– Non ho detto questo.

– Non ascolti mai quello dico, pensi solo ai tuoi progetti, alle tue cazzo di parti umane!

– Ma come puoi dirlo!

– Oggi pomeriggio ho la visita, te lo ricordi. – disse lei toccandosi il ventre gonfio.

Non se lo ricordava. Evidentemente, Ashby notò la sua esitazione.

– Te l'eri dimenticato! Riesci a dimenticarti perfino di tuo figlio.

– Sai che non è così.

– E com'è allora?

– Non ho nessun appuntamento da disdire, né altri impegni, qual è il problema?

– Vedi? – disse lei con una certa calma nel tono della voce che era molto simile a rassegnazione. – Non capisci quello che dico.

 

Ashby perse il bambino all'ottavo mese. Un anno dopo ci riprovarono e questa volta ci fu un aborto spontaneo al quinto mese. Ashby cadde preda della depressione più buia. Si prese un periodo di aspettativa dalla LightCyber - scelta osteggiata da Stan che le aveva consigliato di non farlo, il lavoro l'avrebbe aiutata a distrarsi, pensava. Ma ormai non c’era più dialogo tra loro, i pensieri di lei erano lontani anni luce da quelli di lui.

Quando Lester capì che erano arrivati al punto più basso della loro relazione decise di fare qualcosa.

– Adottiamo un bambino. – ci aveva pensato molto e dirlo ad alta voce cementò il suo volere.

– Io non voglio. – disse lei toccandosi istintivamente la pancia, come a dire che avrebbe accettato solo il frutto della sua stessa carne.

– Perché no?

– Tu non puoi capire il dolore che ho provato.

– Certo che posso. Tu lo portavi in grembo, è vero, ma io sono il padre.

– Non è la stessa cosa.

– No, non lo è, è vero. Ma io sono un genitore quanto te.

– Non lo siamo. Nessuno dei due lo è.

L'ultima frase buttò entrambi nello sconforto. Lo sguardo successivo tra loro era vuoto, incolmabile, sembravano due estranei. Lei andò in camera da letto sbattendo la porta.

 

Sera tardi, Stan rientrò a casa cercando di non far rumore. Si sfilò le scarpe all'ingresso e si diresse a passo felpato nello studio. La porta era aperta, una luce soffusa illuminava parte della sala dove si affacciava la stanza. Lester arrivò allo stipite della porta e, non visto, rimase a guardare sua moglie Ashby seduta alla sua scrivania, intenta a leggere una lettera.

Lei lo aveva sentito, ovviamente, e finì di leggere le ultime righe della lettera. Infine, alzò lo sguardo su Stan.

– Da quanto va avanti? – domandò lei senza alcun tono nella voce, come un’intelligenza artificiale.

– Un paio di mesi.

Lei si morse il labbro inferiore, ad impedire la fuoriuscita di qualche reazione, di qualche parola.

– Ho perso il bambino un mese fa. – fu quello che disse, solo questo, con voce bassa. Una combinazione di parole particolarmente efficace e dolorosa.

– Non so cosa mi passasse per la testa. Io...

– Con Claire.

Lei si alzò dalla sedia, gli passò vicino senza dire niente, nemmeno lo guardò. Trafelata andò in camera da letto per radunare alcuni indumenti dentro una valigia.

– Dove vai? – chiese lui sapendo benissimo di non avere il diritto di saperlo.

– Non osare parlarmi.

– Ti prego, rimani.

Dieci minuti dopo Ashby sfrecciava via di casa con la macchina. La notte era serena, piena di stelle, il sibilo del motore elettrico spiccava limpido nell'assenza di rumori.

 

– Pronto, chi è? – Stan rispose al telefono, aveva la voce impastata dal sonno. Erano quattro giorni che non dormiva, aveva preso delle pasticche di Roipnol per cercare di riposare un po' e non pensare. Stava perdendo il contatto con la realtà.

– Sono Claire, devi venire subito in ospedale. – sentendo quella frase dalla sorella di Ashby intuì subito cos'era successo, così non disse altro. Scese da letto e si precipitò all'ospedale.

– Sta bene? – domandò Stan a Claire, lei aveva il volto che pareva un fantasma, senza colore, gli occhi rossi e gonfi.

– È morta. – fece lei racchiusa in un dolore tutto suo che lei stessa stentava a comprendere e anzi, lo stava tenendo fuori, a decantare, attendendo il momento giusto per farlo esplodere. – È morta. – ripeté poi a voce più bassa, come se la prima volta non fosse stata sufficiente.

Quelle due parole aleggiarono nell'aria per qualche momento. Stan non le comprese. Continuava a fissare Claire senza comprendere il significato di quel momento. Si ripeté in testa le parole, è morta, varie volte, fino a che i contorni sbiaditi non diventarono più nitidi e comprese prima il suono e poi il doloroso messaggio che veicolavano.

– No. – riuscì solo a dire lui. – Voglio vederla.

Claire lo accompagnò alla stanza di lei. Ashby sembrava dormire. Aveva il volto sereno.

– Non si può fare niente? – forse era il sonno, forse erano gli anni passati a lavorare su impianti artificiali o semplicemente non voleva accettare la realtà che gli si era palesata davanti.  

– È morta, Stan. – Claire continuava a ripetere quelle parole e Stan faceva sempre fatica a carpirne il suono. Il significato.

– Un incidente?

Lui strinse la mano di lei. Era fredda, inerte, sembrava finta, lo era, era una delle sue protesi. Stan non riusciva a smettere di piangere. Voleva con tutto sé stesso che fosse stato un incidente, era un pensiero egoista, il più egoista, per potersi alleggerire l’animo. L’animo, quella matassa astratta in cui nemmeno credeva.

– No. – la negazione gli arrivò come una bastonata. Lei ora strinse la sua mano, si aggrappò a qualcosa e come fosse l’ultimo fiato rimasto, disse: – Era incinta, Stan.

Stan spalancò gli occhi. Si sentì mancare e dovette appoggiarsi al letto dove era distesa sua moglie, per non cadere.

– Ha lasciato questa.

Claire gli mise davanti una lettera, riconobbe la calligrafia di sua moglie, l’andatura continua del tratto, le lettere rotonde e nette, a comporre il suo nome, per Stan.

Stan venne strappato a quel delirio di dolore e per un attimo tornò alla realtà.

Claire non disse altro dopo avergli dato la lettera. Anche lei ebbe un pensiero egoista: era quasi sollevata che non spettasse a lei leggerla. Si domandava quanto altro dolore avrebbe potuto portare una semplice busta bianca che custodisce un foglio scritto.

– Li riporterò indietro.

Stan non sapeva se aveva pronunciato quella frase ad alta voce o se l’avesse solo pensata, ormai tutto sembrava aver perso i contorni, come i brutti sogni che rimangono addosso anche dopo il risveglio.

 

Caro Stan,

sono sicura che non comprenderai il mio gesto. In cosa vuoi farlo rientrare? Un atto contro dio? Contro l’uomo o contro la vita che tu stai cercando di soggiogare?
Non ti biasimo, ho lavorato con te per tutto questo tempo, ho appoggiato le tue idee quando il mondo ti andava contro; ho messo da parte me stessa per capire il tuo punto di vista e il perché della tua ricerca dell’immortalità.

Per molti uomini l’immortalità è l’eredità che lasciano tramite i propri figli e questo noi non siamo riusciti a farlo. Lo capisco, quindi, perché vuoi continuare a vivere, perché vuoi perseverare nella tua idea finale: riversare l’intera coscienza di una persona in un corpo nuovo, artificiale.

Ma, sono incinta Stan. Ti ho mentito credendo non fosse importante. Ti ho mentito tenendotelo nascosto perché so che non mi avresti mai lasciato andare, che mi avresti ficcato dentro un corpo nuovo pur di farmi continuare a vivere. Ma io non voglio, Stan, sono stanca di combattere contro me stessa e non ho più voglia di provarci ancora, e ancora. Mi dispiace. So che quello che sto facendo è più grave di quello che hai fatto tu ma non puoi salvarmi.

Addio Stan.

Il presente

 

Ho una batteria dentro di me, delle dimensioni di un portafogli, sottile come foglio di carta, immobile, silenziosa. Non la sento, è un fantasma, non la percepisco ma so che è lì. Che c’è. E c’è un’altra vita, dentro di me. Me l’ha detto Claire, la sconosciuta alla fermata dell’autobus, mia sorella, l’amante del mio ex marito.

Dopo aver letto la lettera me ne sono tornata a casa, piangendo a dirotto. Come ha potuto farmi questo? Mi aveva detto che era stato un incidente, cazzo. Ma questa è solo la versione della sua realtà, il migliore dei suoi futuri possibili. Mi ha rimesso in un corpo artificiale e per altre tre volte sono morta ancora: non lo accettavo, continuavo a disconnettermi, la mia parte organica respingeva quella artificiale. Ma cos’era rimasto di mio, in realtà? Il mio cervello, la sede dei miei ricordi.

Beh, non tutti. Stan si è preso la libertà di omettere alcune cose: i parti andati male, alcuni episodi dolorosi della mia infanzia. Mia sorella. Il suo tradimento.

– Sapere la verità è l’unico modo che hai per sopravvivere.

La voce di Claire è rotta dal pianto, eppure sorride, continua a farlo. Cerca di toccarmi le mani per stabilire un contatto ma continuo a ritrarmi, non lo faccio apposta. Non voglio che tocchi le mie mani finte.

– So che non dovrei essere qui, – si morde le labbra, ha i capelli scompigliati, è stanca, non vede l’ora di togliersi questo peso – ma devi sapere la verità: la vita che porti in grembo è tuo figlio. I medici riuscirono a salvare il feto dopo che tu… ecco, e Stan ha aspettato che ti stabilizzassi per…

– Ha aspettato la versione migliore di me.

               Claire, improvvisamente, indurisce lo sguardo.

               – Forse sì. Forse ora puoi farcela. – poi si ferma, aspettando una mia reazione.

               – Io non volevo tornare in vita dentro un corpo finto. Lui mi ha mentito, mi ha tolto i ricordi. In quale altro modo si può fare più male ad una persona? Non ci sono nemmeno leggi regolatrici al momento perché quello che ha fatto non dovrebbe nemmeno esistere.

               – Tu sei stata la prima, ce ne saranno altre. – Claire abbassa la voce, sembrano parole non sue, ma di Stan. – Senti, – ora torna a guardarmi negli occhi – Stan ti ha fatto tanto male, te ne ho fatto anche io. Quando avevi bisogno di aiuto non ci siamo stati. Questo non è il suo modo per redimersi perché ha sofferto e sta soffrendo anche lui. Non vuole essere perdonato.

               – Allora perché mi ha fatto questo? – urlo e il mio stupido corpo artificiale non regge lo sbalzo. Cado, Claire scatta per reggermi. Mi afferra con la sua mano artificiale, assolutamente indistinguibile da una vera. Anche io sono così?

               – Voleva sistemare le cose. – Claire indica la mia pancia. – Ti ha cancellato i ricordi ma è uscito dalla tua vita per permettere a te di averne una decente. E con un figlio. Ti ha mentito ma non ho mai visto nessuno soffrire così tanto per qualcun altro.

               Segue una pausa infinitesimale, Claire sorride. Sento che va tutto meglio grazie a quel sorriso.

               – Non gli devi niente ma ha fatto tutto il possibile per fare in modo che tu potessi portare a termine questa gravidanza.

               – Io non…

               Che egoista sono stata? E lui allora? Non riesco a capire niente in questo istante, di nuovo le fitte alla testa mi fanno vedere tutto nero.

               – Cosa sono io adesso? – chiedo a Claire a bassa voce.

               – Sei Ashby, lo sei sempre stata.

               Porto la mano al grembo, sento il bambino muoversi delicatamente, sono al quarto mese.

               Nostro figlio.