Un libro, un film e un album per ricordare con Capossela il sisma dell'Irpinia
“Chi siete? A chi appartenete? Cosa andate cercando?”
Risuonano quasi come un mantra le parole del viandante, che cammina errabondo tra le antiche terre paterne.
“Vado cercando musica e musicanti, i canti che seguono rotte antiche e vagano il mondo”.
Così il cantore ramingo introduce un viaggio quasi epico nelle terre degli avi, in quell’Alta Irpinia dove è tornato più volte in cerca delle sue radici.
Vinicio Capossela è senza dubbio uno dei musicisti più importanti non solo della sua generazione ma di tutta la musica italiana (mi spingerei a dire, senza troppe remore, che sia il cantautore italiano più importante ancora in attività). Se celebre e acclamata è la sua produzione musicale, meno nota se non agli affezionatissimi è la sua attività di scrittore. Numerosi i libri editi per i tipi di Feltrinelli, fra i quali spicca “Il paese dei coppoloni”, vincitore del “Dante” al premio Strega 2015.
Un libro scritto quasi in due decadi, accumulazione annosa di ricordi e memorie, libro sapienziale che racconta storie e personaggi, miti e favole, descrivendo una terra lontana e dimenticata, quella dei coppoloni, con un linguaggio arcaico impastato col dialetto. Così erano chiamati gli abitanti di Cairano, piccolo borgo avellinese dal fascino fiabesco, e così finirono per essere chiamati per sineddoche tutti gli abitanti di quelle terre.
L’anno seguente l’uscita del libro, il regista Stefano Obino decide di trarne un film, o meglio un documentario, o meglio ancora un documento visivo. Non è infatti semplice classificare questa pellicola sui generis, a metà fra il documentario antropologico ed etnologico (alla Ernesto de Martino per intenderci) e un film musicale surreale e visionario.
La macchina da presa segue i passi di Vinicio che accompagna lo spettatore tra barberie dove si canta mentre si viene rasati, vecchie ferrovie abbandonate, boschi cupi e misteriosi, moderni aedi cantori e trebbiatrici giganti che sembrano partorite dalla fantasia di Jules Verne o di Athanasius Kircher.
La musica è ovviamente quella di Capossela, sono le “Canzoni della cupa” (allora ultima sua fatica discografica), colossale lavoro di ricerca musicale, tra il folk e il folclore, tra la Polvere country e un po' western e l’Ombra più cupa, bestiale e animalesca, dove riecheggiano ragli e ululati.
A dorso di un mulo o sulla nuovissima locomotiva a vapore scopriamo una terra di mezzo dimenticata e in abbandono. Il disastroso sisma del 23 novembre 1980, di cui ricorrono oggi i quaranta anni, mise in ginocchio una zona dell’entroterra già fortemente in crisi. La scossa di terremoto di magnitudo 6.9 non solo causò quasi 3000 morti, più di 8000 feriti e circa 280.000 sfollati, ma sancì anche la fine del mondo contadino e di quelle comunità ataviche. Le parole dure e risolute dell’allora Capo di Stato Sandro Pertini contro il ritardo imperdonabile dei soccorsi fecero scalpore e restano nella memoria collettiva; nacque allora la Protezione Civile, ma gli sforzi del governo non poterono arrestare l’esodo da quelle terre scosse e abbattute.
Molti paesi divennero così fantasma o semi disabitati, e ancora oggi, addentrandoci Nel paese dei coppoloni l’impressione sarà quella di calpestare una terra abbandonata, destinata a morire e a dimenticare le proprie tradizioni contadine e popolari.
Rivedere questo film onirico e ipnotico oggi assume allora un doppio valore, quello artistico ed estetico (altissimo), ma anche quello memorialistico, che permette di conservare la memoria di luoghi distrutti e abbandonati. Il vagabondo artista ci porta nel dedalo delle vie strette di Calitri tra case diroccate abbandonate, muri fatiscenti e pietre dirute, ferite lampanti e mai cicatrizzate di quel funesto giorno di novembre.
Vinicio Capossela non ha solo il merito di aver raccontato queste terre, nel libro, in musica e nel film, ma ancora più prezioso per questo territorio è il suo Sponz Fest, un festival culturale ideato e diretto da lui stesso che da anni prende vita d’estate a Calitri e nei paesi limitrofi. Tra concerti, camminate, rituali collettivi, attività artigianali, incontri e spettacoli vari questa straordinaria esperienza (insieme all’altrettanto prezioso festival “La luna e i calanchi” ideato dal poeta Franco Arminio) riporta l’attenzione su questa regione distrutta e negletta.
Col tempo abbiamo tristemente imparato che dopo terremoti di questa portata è difficile rialzarsi, è difficile ricostruire e ricucire non solo il tessuto urbano ma soprattutto quello sociale. Dall’Irpinia a L’Aquila, fino a Norcia e Amatrice, quando la terra trema non si porta via solo vite umane ma troppo spesso anche la memoria dei luoghi, poiché è prassi che quelle pietre non vengano più abitate, ma si costruiscano nuove città di cartapesta, fittizie e spesso orride, fragili non perché prive delle norme antisismiche, ma per la mancanza di storia, tradizioni e memoria.
In questo quarantennale anniversario dal sisma dell’Irpinia il pensiero non va solo ai defunti di quella tragedia, ma anche alle terre dei coppoloni in abbandono e a quei luoghi che soffrono di amnesia collettiva. Ascoltare le Canzoni della cupa e vedere quest’opera filmica unica è un buon cominciamento per svegliarci dal coma topografico di questi luoghi dimenticati.