L'Amletico

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Veronica Mecchia, abitare poeticamente il mondo tramite la fotografia

Un treno in corsa lanciato in qualche lembo di mondo e una carrozza patinata di quello che sembrerebbe un vecchio Intercity. Dal finestrino un cane ramingo forse abbaia in una stazione desolata e scalcinata.
Un grigiore vivido all'infuori del vetro.
Si direbbe la scena di un film di Tarkovskij a guardarla bene (forse Stalker) e invece è uno scatto di Veronica Mecchia, fotografa milanese che da anni vive a lavora a Parigi, dove espone le sue fotografie e realizza i suoi taccuini fotografici a mano.

Ciao Veronica, partiamo proprio da questo scatto che ho evocato, dove lo hai fatto?

 Ciao, ti ringrazio tantissimo per questa tua introduzione e per aver scelto questa fotografia. Sapere che guardarla ti abbia fatto pensare a Tarkovskij mi riempie di gioia. E’ uno dei miei registi preferiti in assoluto, per cui mi sento davvero onorata del confronto. Stalker è un film che ho amato molto (l’ho rivisto l’anno scorso durante il lockdown). Ho scattato questa immagine nel 1997, quando ancora non l’avevo visto, ma ora che mi ci fai pensare è vero: l’atmosfera della foto è simile a quelle del capolavoro del regista russo.

Questa fotografia è stata realizzata in Sicilia, alla stazione di Lentini, sulla linea Catania-Ragusa. Era la prima volta che visitavo la Sicilia e me ne sono innamorata osservandola dal treno. Ero partita da Milano e avevo percorso tutta l’Italia, per arrivare a Ragusa il giorno dopo. Un’esperienza bellissima, la ricordo ancora come se fosse ieri.

Adoravo questi vecchi scompartimenti, in cui ci si poteva chiudere, in cui si stava al massimo in sei persone e che avevano (ricordi?) dei quadri o delle fotografie sopra ogni sedile. Se ne intravede uno anche qui. Fuori dal finestrino si legge la scritta “Lentini” ma è invertita: la prima volta che ho stampato questa immagine in camera oscura ho inserito per errore il negativo nell’ingranditore al contrario e da allora riesco a vederla solo in questo modo. Mi piace così, perché è come se il tempo fosse passato attraverso il filtro di uno specchio deformandone il ricordo. E’ quello che, credo, faccia la fotografia: trasformare la mia memoria, mutare, attraverso una lente, lo spazio e il tempo che ho sperimentato. Anche per questo, continuo a lavorare in analogico. Ho bisogno che trascorra del tempo tra il momento in cui vivo una determinata situazione, scatto la fotografia, e il momento in cui rivedo l’immagine da me creata.


Fa parte della serie del Viaggio in Italia, una sorta di diario di viaggio fotografico. Quando hai compiuto questo viaggio e che luoghi hai visitato? Perché molte di queste foto sono scattate da treni in corsa?

Ho visitato sempre l’Italia in treno e i suoi paesaggi li ho visti scorrere per la prima volta attraverso un finestrino. Sulle orme dei viaggiatori del passato, che prima di me si sono avventurati nel Grand Tour, ho scoperto il mio Paese usando il treno come un caleidoscopio.

Si tratta del mio primo lavoro fotografico, che ho intitolato “Viaggio in Italia” in omaggio a Goethe, in occasione di una mostra in Germania. Riunisce varie fotografie che ho cominciato a scattare dal 1997, quando ancora vivevo a Milano. I luoghi che hanno ispirato questa serie sono la mia ex-città, la campagna della Pianura Padana tra Milano e Pavia (dove all’epoca frequentavo l’università), la Puglia e soprattutto la Sicilia.

Nella tua fotografia il paesaggio non è un panorama da cartolina, direi che si tratta più di un paesaggio interiore, dell'anima, dove si riversano stati d'animo. C'è una melanconia nelle tue foto? È un sentimento che ti appartiene?

 Sì, la melanconia è un sentimento che mi appartiene. Credo che la fotografia da sempre mi abbia aiutato a darle espressione e a celebrarla.

Con questo lavoro del treno per esempio apro una finestra su un’Italia scomparsa o che sta scomparendo. Amo le cose che narrano di un passato che non esiste più: stazioni abbandonate, dove ero l’unica passeggera ad aspettare, scompartimenti fatiscenti, senza aria condizionata in agosto. Quando mi sono trasferita a Parigi, queste fotografie hanno assunto un valore diverso, arricchendosi della nostalgia che provo per il mio Paese.

Come giustamente hai colto, si tratta di paesaggi interiori, dell’anima. In questo viaggio immaginario il tempo e lo spazio non hanno importanza: sono le emozioni che i luoghi hanno fatto nascere in me che vorrei salvare attraverso le immagini.

Partendo da questa serie ho realizzato il primo dei miei libri fotografici in forma di leporello. L’idea è di ricreare un percorso visivo in cui i luoghi e i momenti si mescolino, esattamente come accade nella nostra memoria.

Hai ragione: nei miei paesaggi si riversano gli stati d’animo che ho provato. Se sento il bisogno di fotografare un paesaggio è perché ha mosso in me qualcosa di molto forte, un sentimento che non ha nulla di razionale. Nessuna delle mie fotografie è programmata, studiata. E’ come se il luogo mi chiamasse e mi parlasse: non posso fare altro che fotografarlo. A volte ho avuto l’impressione di avere già vissuto in alcuni posti, di aver già visto alcuni paesaggi e fotografarli è per me un po’ come riconoscerli.

Dove hai fatto questa fotografia?

Questa fotografia è stata scattata anni fa al Museo Insel Hombroich a Holzheim presso Neuss. Si tratta di un Museo all'aria aperta, un posto incredibile, uno dei musei più belli che abbia mai visitato. La sua particolarità è che sorge in un immenso parco, dove un tempo si trovava una base della Nato. Sparsi nel paesaggio vi sono varie sculture e diversi edifici che ospitano bellissime opere d’arte in perfetto dialogo con la natura circostante.

Ho visitato questo museo un mese di giugno: le piante erano rigogliose, la natura sembrava incontaminata, lussureggiante. A un certo punto, sono giunta in riva ad uno stagno e mi sono sentita trasportata in un’altra dimensione: non mi trovavo più nel Nord della Germania, ma piuttosto in una foresta incantata. Gli alberi che mi sono trovata davanti con le loro radici nell’acqua mi hanno parlato. Tutto era silenzioso, calmo, eppure pieno di vita. Penso che sia stata una delle mie prime esperienze di conversazione con le piante. Ho preso la mia reflex e ho scattato due fotografie, in uno stato di reverenziale rispetto e ammirazione davanti a tanta bellezza.

Il tuo corpo è spesso presente in queste foto. È un corpo fragile, molte volte raccolto, rannicchiato, disteso a terra, su una terrazza parigina o in un paesaggio. Cosa esprimono queste pose e questi gesti?

 Le pose per me nascono in maniera istintiva. Non sono mai studiate, ma sono una risposta naturale al rapporto che instauro col paesaggio, col luogo in cui mi trovo. Una volta stabilita l’inquadratura e la luce, aziono l’autoscatto e ho pochi secondi per entrare nella fotografia: spesso corro, per prendere la posizione. C’è poco tempo per la riflessione, tutto viene vissuto più che pensato.

Talvolta mi è stato detto che le pose rannicchiate sembrano esprimere una forma di difesa. Credo piuttosto che si dovrebbe parlare del desiderio di lasciarsi cullare dall’ambiente circostante: per me quelle pose, quei gesti esprimono pace, tranquillità. Raccoglimento sì, poiché la mia coscienza è rivolta all’interno, pur instaurando un dialogo con gli elementi a me esterni della natura (una pianta, una roccia), di un paesaggio urbano (una terrazza a Venezia o a Parigi), o di un vecchio mobilio in un castello. Il mio desiderio, quando amo un paesaggio o un posto mi attrae, è quello di farne parte: decidendo di entrare nell’inquadratura, lo vivo davvero, sento di “abitarlo”.

La mia intenzione non è quella di rappresentare un corpo fragile, ma un essere umano in armonia con la natura, che sente profondamente di fare parte dell’universo in cui vive.

 Il tuo corpo si fa paesaggio come in questo scatto. Dove ti trovavi qui?

Ero in un luogo che amo molto, dove sto sempre bene: sui Monti Iblei, nella provincia di Noto. Il paesaggio scende dolcemente verso il mare, offrendo alla vista colline, campi coltivati, pini, bagolari e carrubi del parco della forestale. La natura è predominante, intorno a me la vita si esprime attraverso piante, cicale, uccelli e lucertole e quando guardo in basso il mio spirito è invitato a planare piano piano fino al mare. Nel giardino ci sono rocce antiche, che erano già state lavorate e abitate in epoca antica (nella zona sono stati ritrovati manufatti risalenti all’età preistorica). Un tempo là c’era il mare: quando osservo quelle colline sotto di me, immagino l’acqua salmastra che le ricopriva, insieme a tutti gli esseri che vi nuotavano. Cielo e mare si fondono nella mia mente. Quelle rocce hanno un’energia fortissima. Cambiano colore con il sole: all’alba, a mezzogiorno o al tramonto si animano grazie alla luce e mi parlano di tempi antichi. Quando mi sdraio sopra di esse, mi restituiscono il calore del sole che hanno accumulato.

Ho fatto questa fotografia perché adoro questa vista. Ho voluto introdurvi il (mio) corpo di donna che, come dici, si fa paesaggio, perché sento una grande energia creativa e feconda in questo luogo.

Fa un certo impatto la foto dove sei in posizione quasi fetale circondata da un tubo (che sembra connettersi alla tua spina dorsale), intitolata “Hold infinity in the palm of your hand”. Che legame hai con i corpi in genere e con il tuo?

E’ una delle prime fotografie che ho realizzato, nel luglio del 1998 , durante un workshop con Arno Rafael Minkkinen. Desideravo esprimere la mia volontà di nascere, sentivo di non essere veramente nata: mi sentivo, come nella fotografia, ancora nell’utero. Ricordo che cercai per un giorno intero qualcosa che potesse raffigurare il grembo materno e all’improvviso trovai una canna dell’acqua per annaffiare le piante: disegnare con essa il cerchio fu un gesto quasi automatico ed entrarci dentro, dopo aver fatto partire l’autoscatto, fu altrettanto naturale.

Anni dopo, a una mostra di Gauguin a Parigi, vidi una sua opera intitolata “Manao Tupapau (Elle pense au revenant, detta anche L’Esprit des morts veille)” del 1893-1984 e ebbi come una rivelazione. Rividi questa mia fotografia e capii che, senza saperlo, all’epoca ero entrata in contatto con un archetipo dell’inconscio collettivo. Nel 2020, in pieno lockdown ho letto “Il mito dell’eterno ritorno”  e “La nascita mistica. Riti e simboli dell’iniziazione”  di Mircea Eliade in cui l’autore descrive le cerimonie con cui le civiltà tradizionali rigeneravano simbolicamente il cosmo e la società e i riti di rinnovamento e iniziazione che implicavano l’esperienza della morte rituale e della rivelazione del sacro. Vi ho ritrovato spesso la presenza del “cerchio” come simbolo dell’utero materno, in cui essere rinchiusi e da cui rinascere.

Questa mia fotografia ha assunto allora un nuovo valore. Per me oggi rappresenta la morte simbolica e la rinascita.

Non so quale legame io abbia con i corpi. So che mi piacciono, che ho imparato a vederli e a amarli fin da piccola grazie all’arte (la pittura, la scultura, il teatro e la danza). Per me il corpo rappresenta l’essenza di quello che siamo: esseri incarnati che vivono e che moriranno in questo mondo. Grazie a Teresa Scotto di Vettimo, che ha scritto recentemente un breve saggio sul mio lavoro, ho capito quanto sia importante per me il rapporto tra il corpo e la natura, o il corpo e lo spazio/elemento architettonico. Il corpo mi ricorda che partecipiamo alla natura effimera delle cose e che la sua meraviglia sta proprio nell’essere vivo, in perpetuo cambiamento, impermanente e in relazione con il mondo e gli altri esseri.

Ho instaurato e amato il legame con il mio corpo proprio grazie alla fotografia. Quando realizzo un autoritratto per me avviene uno sdoppiamento: è come se il corpo ritratto non sia il mio e questo mi permette di fotografarlo. Guardandolo fotografato, non lo riconosco e allo stesso tempo imparo a conoscerlo davvero.

“Hold infinity in the palm of your hand” non è propriamente il titolo della foto in questione, bensì quello di uno dei miei taccuini, ispirati ai celebri versi di “Auguries of Innocence” di William Blake, in cui ho inserito questa mia immagine del cerchio.

Abitare poeticamente il mondo è il titolo di un'altra tua serie, che rimanda ad un libro dello scrittore e poeta francese Christian Bobin. Come si può compiere questa operazione difficile? Cerchi di farlo tramite la fotografia?

Il titolo di questa mia serie (una delle ultime) è liberamente tratto dal verso di Hölderlin “Pieno di merito, ma poeticamente abita l’uomo su questa terra”. Fu un amico artista, Gaetano Persechini, a citarlo vedendo le mie fotografie. Mi piacque subito quest’immagine di “abitare poeticamente il mondo”, la sentii mia (in seguito l’ho usata anche per creare uno dei miei libri fotografici).

E’ un’operazione difficile, come dici, ma penso che sia l’unico modo vero in cui possiamo abitare su questa terra, l’unico che abbia senso. Vivere in armonia con il mondo e con gli esseri viventi che lo abitano, cercare un significato all’esistenza che vada al di là dall’aspetto materiale delle cose, che sia più ispirato, creativo e profondo.  Mi piace poi l’idea di “abitare la terra”: la vedo in relazione con il bisogno di incarnarsi, di vivere pienamente hic et nunc, imparando a cogliere la bellezza di ogni cosa.

 La pratica fotografica mi aiuta e mi accompagna in questa mia ricerca. La poesia che provo in un particolare luogo a volte è talmente grande che devo fermarmi a contemplarla, piena di gratitudine e ammirazione. A volte cerco di trasmetterla nelle mie fotografie, di farla rivivere. Quando decido di entrare nell’inquadratura è proprio per prendere coscienza della mia incarnazione, per abitare poeticamente quel mondo.

Il libro di Christian Bobin non l’ho ancora letto: un progetto per il futuro.

Altra tematica che mi sembra ricorra nei tuoi lavori sono le nature morte, le Vanitas.
I fiori hanno per te una carica erotica come ce l'avevano anche per Mapplethorpe? Difatti in queste Vanitas compare in maniera semi nascosta a volte e più forte in altre il tuo corpo, in pose che rievocano certi quadri di Degas.

Sono sempre stata colpita dal lato effimero delle cose, degli esseri viventi e dallo scorrere inesorabile del tempo. La mia prima serie di fotografie, intitolata “Vanitas”, ha voluto rappresentare questo aspetto doloroso, prendendo ispirazione dalla tradizione della pittura.

In seguito, è maturata in me una consapevolezza più profonda della questione. Ho capito che il mutamento e la transitorietà sono aspetti inscindibili della realtà in cui viviamo.

Da un certo punto in poi, ho smesso di dare voce alla malinconia che provavo per l’effimero: è alla sua celebrazione che ho voluto contribuire, rendendogli omaggio con “L’impermanenza di ogni cosa”, una serie di opere ispirate alla cultura e alle arti orientali.

Fotografare mi ha aiutata ad accettare la natura transitoria delle cose, una finitezza che si fonde in un flusso universale.

I fiori sono i protagonisti di queste mie immagini, perché sono il simbolo per eccellenza dell’effimero. Tutto parte da loro: spesso, quando mi regalano dei fiori, sento il bisogno di fotografarli, creando una delle mie Vanitas. Per me i fiori non hanno una natura erotica come per Mapplethorpe, o comunque non è questo loro aspetto che m’interessa. Li ritraggo per la loro armonia e bellezza, per la poesia di cui parlavo in precedenza.

Ho deciso di inserire anche il corpo umano in queste fotografie, per ricordare (in primis a me stessa) come anche noi uomini partecipiamo della natura impermenente di ogni cosa. Noi non siamo altro che una parte di un tutto, che è un unico essere vivente. In questo senso, nelle mie fotografie di Vanitas non c’è differenza tra me e il fiore.

Mi fa molto piacere che tu abbia visto in esse alcuni quadri di Degas. Il suo universo della danza e le scene domestiche di certi suoi pastelli (che adoro) sono stati proprio fonti d’ispirazione per queste mie ambientazioni intime.

Per te il fotografare è un gesto artistico lenitivo, liberatorio, evasivo o ricreativo?

Di sicuro non è ricreativo, né evasivo. Direi che è piuttosto un gesto necessario per salvare e condividere certe mie emozioni. Forse all’inizio, per alcune delle mie Vanitas, è stato lenitivo.

E’ soprattutto un gesto che mi fa bene, che mi aiuta a incarnarmi e a sentirmi parte di qualcosa di più grande, in particolare quando mi trovo nella natura. Nell’atto di realizzare la fotografia sento pienamente di vivere e avverto un’unione profonda con le piante, con gli animali intorno a me. E’ un momento intenso, che mi dà tantissimo e che mi potrebbe bastare. Lavorando in analogico, vedo le immagini dopo un certo tempo, a volte anche dopo mesi, perché sono in viaggio. Quando le scopro, è sempre emozionante e ho l’impressione che qualcun altro abbia partecipato alla loro realizzazione, come se fossero un’opera corale. Il sentimento di appartenere a un’entità più grande è così confermato. E’ come se il sole, le rocce, gli alberi, gli uccelli e le cicale abbiano contribuito a creare l’immagine.

Quando hai iniziato a fotografare e quando hai deciso che sarebbe stato il tuo lavoro e il tuo motivo di vita?

Ho iniziato a fotografare ai tempi del liceo. Durante una gita scolastica a Mantova m’innamorai di Mantegna e di una macchina fotografica reflex che una mia compagna aveva portato con sé. Mi ricordo che ne fui così attratta che tornata a casa chiesi a mio padre di poter usare la sua Canon AE1 degli anni ’70. Iniziai a scattare le mie prime fotografie con quella macchina che giaceva dimenticata in fondo ad un armadio.

In seguito, ho continuato a fotografare durante gli studi universitari, frequentando un corso con Giuliana Traverso presso la storica Galleria “Il Diaframma” Di Lanfranco Colombo. A vent’anni ho partecipato a due workshop in Toscana con Arno Rafael Minkkinen che mi hanno cambiato la vita. E’ durante questa esperienza che ho saputo che la fotografia per me era più di una semplice passione.

Ho dovuto però aspettare alcuni anni per prendere coscienza del fatto che fosse il mio motivo di vita. Durante il percorso universitario ho smesso di fotografare per tre anni, per concentrarmi sugli studi e la tesi di laurea. In realtà ero infelice, ma non lo capivo. Trasferitami a Parigi, mi sono specializzata in arte contemporanea e ho anche pensato di fare il dottorato, finché un giorno sono andata al Musée Rodin con la mia macchina fotografica: prenderla in mano è stato naturale. Per ore ho ritratto le sculture nel museo, che quel giorno avevano una luce perfetta proveniente dalle grandi finestre che danno sul parco. Ricordo la mia gioia quando sono uscita e mentre tornavo a casa in autobus: è forse in quel momento che ho sentito che la fotografia sarebbe stata il mio motivo di vita.

Ho deciso che ne avrei fatto il mio lavoro molto dopo, quasi recentemente direi. Ero impregnata del vecchio pregiudizio secondo il quale con l’arte non si può vivere, per cui l’arte non è un lavoro, ma al massimo una passione. Vivere a Parigi mi ha aiutata sicuramente a prendere questa decisione. Sia perché ci sono molti artisti e ho la fortuna di frequentarli, di lavorare con loro (in particolare durante una residenza artistica a Saint Michel presso l’Associazione Jour et Nuit Culture, che mi ha fornito un atelier), sia anche perché qui lo statuto di “Artista Autore” è riconosciuto e tutelato.

Cosa cerchi con la tua ricerca fotografica?

Mi piacerebbe rispondere con le parole di Andrej Tarkovskij che, in un documentario di Donatella Baglivo alla domanda “Che cosa è l’arte?”, rispose: “Forse siamo qui per migliorare noi stessi spiritualmente. Se la nostra vita tende a questo potenziamento spirituale, allora l'arte è un mezzo per arrivarci.”

La fotografia mi aiuta in quella che è la mia ricerca esistenziale. Cosa vi cerco? Innanzitutto la mia intenzione è di trasmettere delle emozioni. Quelle da me provate realizzando l’immagine, ma non solo: l’importante per me è condividere un’emozione con l’osservatore. Mi piacerebbe proporgli un altro punto di vista rispetto al suo, per esempio mostrargli la mia visione del rapporto tra l’essere umano e la natura, o restituirgli la mia meraviglia davanti alla poesia di certi luoghi e alla bellezza della vita, che è impermanenza.

Parlaci di questi libri fotografici fatti a mano. Come sono nati? Quanti ne realizzi? Dove li possiamo trovare?

I miei libri fotografici sono nati qualche anno fa durante una mostra a Saint Germain dal desiderio di offrire uno sguardo sulla mia opera. Volevo dare la possibilità a chi lo desiderasse di avere un ricordo dell’esposizione e delle mie fotografie, a un prezzo ragionevole. Ho deciso di realizzarli partendo da taccuini o album da disegno fatti a mano che mi sono subito piaciuti come oggetto. Volevo per prima cosa realizzare un bell’oggetto, non un semplice catalogo. Un po’ come i libri d’ore: di piccolo formato, intimi. L’idea di incollare a mano le fotografie mi è venuta perché adoro gli album di famiglia. Con il formato leporello, poi, il desiderio è di offrire una piccola mostra portatile: chi lo possiede, può esporlo aperto a casa propria. Varie persone mi hanno inviato delle fotografie dei miei libri installati da loro: mi fa molto piacere vederle.

Durante i lockdown, con una mostra annullata e molto tempo a disposizione, ho sviluppato diversi libri fotografici, anche con taccuini realizzati a mano da un’artigiana veneziana, che è bravissima. Devo dire che la loro creazione sta diventando un’opera a sé stante, slegata ormai dalle mostre. E’ l’oggetto in sé, la copertina e spesso una poesia a ispirarmi la serie fotografica presentata nel libro.

Per ora ne ho realizzati qualche decina per titolo per i modelli leporelli e qualche esemplare per quelli veneziani, più un piccolo modello a partire da taccuini da viaggio fatti a mano in Nepal. L’anno scorso ho realizzato un nuovo libro, un po’ più grande, intitolato “Wet Clay” con Arno Rafael Minkkinen, che mi ha fatto l’onore e il regalo di selezionare le fotografie, scrivere il testo meraviglioso che le accompagna e studiare l’impaginazione (il tutto è realizzato a mano da me, sotto la sua direzione).

Alcuni libri si possono trovare a Parigi presso la libreria specializzata La Nouvelle Chambre Claire, o presso la galleria Remèdes Galerie; tutti sono presentati alle mie mostre. Per chi lo desidera, li spedisco direttamente io da Parigi.

Da quanto vivi a Parigi? Quanto la città influenza il tuo lavoro? Ho visto alcune belle foto che hai fatto al Musée Rodin...

Mi sono trasferita a vivere a Parigi nel 2003, ma prima vi avevo già vissuto tra il 1998 e il 1999. In realtà sono nata qui, ma quando avevo un anno i miei genitori sono tornati a vivere a Milano, dove sono cresciuta. Penso che da sempre il legame con questa città sia stato forte, anche se non ne avevo alcun ricordo.

Il fatto che Parigi sia la culla della fotografia di sicuro poi ha aiutato la mia scelta di dedicarmi a questa forma d’arte. Mi influenza tantissimo, soprattutto per la sua bellezza e per la sua ricchezza umana e culturale, per tutto quello che offre: qui mi sento connessa in modo profondo alle persone e alla creatività.

Riguardo al Musée Rodin, ho già rsposto: mi fa piacere che tu abbia visto queste mie fotografie, che, come dicevo, sono molto importanti per me. Chissà, magari senza la bellezza delle sculture di Rodin il desiderio di fotografare non si sarebbe risvegliato in me.

Fotografi preferiti?

Una domanda difficile: sono tanti. Alcuni sono stati per me maestri reali o immaginari: Arno Rafael Minkkinen, Anne Brigman, Julia Margaret Cameron, Claude Cahun, Francesca Woodman, Cindy Sherman  per il ciclo “Untitled Film Stills”, Edward Weston, Tina Modotti, Manuel Alvarez Bravo, Saul Leiter, Edourad Boubat, André Kertész, Josef Sudek, Pentti Sammallahti, Masao Yamamoto.

Altri sono miei amici, di cui ammiro il lavoro fotografico: Zoe Vincenti, Daniele Tedeschi, Colette Pourroy.

 Chiudiamo con un paio di domande più tecniche. Con quale macchina scatti? Come le fai sviluppare?

La macchina fotografica che utilizzo più spesso è una Nikon F3, ma a volte uso anche la mia Rolleiflex degli anni ’60, dipende dal tipo di fotografia che intendo realizzare. Le faccio sviluppare in un laboratorio di fiducia qui a Parigi: sono troppo imprecisa e distratta e non mi fido a farlo io, perché un solo errore, anche di pochi secondi, potrebbe rovinare il negativo. Per le stampe in camera oscura è diverso, perché al massimo è un solo foglio a essere buttato per colpa di una distrazione.

Mostre in programma? Qualcosa a Roma?

La prossima mostra in programma è una collettiva con altri artisti pittori e poeti, curata dal mio amico Gaetano Persechini, che si terrà in una bella galleria sull’Ile Saint-Louis qui a Parigi in primavera. Sono impaziente di vedere le opere scelte.

Mi piacerebbe tantissimo esporre a Roma! Vorresti curare tu una mia mostra? Ne sarei felice.