L'Amletico

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Pasolini in diffusione a Villa Sciarra

Da qualche tempo ho la fortuna di abitare a Trastevere, forse uno dei più celebri e in parte ancora autentici tra i quartieri storici di Roma, e di perdermi spesso per le sue strade in quei lieti e rari momenti in cui riusciamo ancora a camminare senza avere una precisa destinazione da raggiungere.

In una di queste occasioni mi è capitato di entrare, una domenica mattina, a Villa Sciarra, piccolo ma prezioso parco alle pendici del Gianicolo, a pochi passi da piazza San Cosimato, e di sentire a mano a mano che percorrevo il viale principale, una voce narrante provenire da grosse casse disseminate qua e la nel giardino. Dopo qualche esitazione non ho avuto dubbi che si trattasse di un brano di Pasolini, diffuso attraverso una profonda voce maschile, per i visitatori del parco.

Subito ho sentito la dolcezza lieve di quella calda mattinata autunnale amplificarsi grazie alle parole che riecheggiavano cadenzate, nell’andamento serrato del dialogo, tra una battuta in romanesco e una digressione ripresa dalle pagine di Ragazzi di vita (ho poi scoperto che il brano narrato era tratto da quel libro).  Riconosco, in quell’intervallo di tempo sospeso, i versi che Pasolini scrisse nel periodo in cui abitò nel “ricco” quartiere di Monteverde, in via Giacinto Carini:

 

alle gioie mattutine di Villa Sciarra

e del Gianicolo, gioie di studenti, balie,

 giovinette, verso la gazzarra

dei loro pari, che il solicello assorbe

in un patito alone d’erba e d’aria...

(da La religione del mio tempo, 1957-59)

 

Sono gli anni in cui Roma è presente costantemente, percorsa in lungo e in largo, fisicamente e poeticamente, nell’opera pasoliniana, rievocata nelle diverse anime che la compongono, con i suoi quartieri, le sue periferie, persino le sue piante:

 

Io ero morto, e intanto era aprile,

e il glicine era qui, a rifiorire.

Com’è dolce questa tinta del cadavere

che copre i muraglioni di Villa Sciarra,

predestinato, prefigurato, alla

fine del tempo che si fa sempre più avido... 

(da Il glicine in Poesie incivili, 1960)

 

E Villa Sciarra appare il luogo più adatto per l’iniziativa che, stranamente per nulla pubblicizzata in rete (!), è apparsa ai miei occhi un esempio, semplice ma sentimentalmente efficace, di “servizio” o forse meglio dire di dono ai cittadini (ma mi chiedo se la stessa cosa avvenga nei quartieri periferici della città, oltre che in quelli abitati dalla ricca borghesia romana). Perché Villa Sciarra si offre emblematicamente come lo scenario, comune a molti e molti luoghi magici di Roma, dove la bellezza e il fascino della storia sedimentata nel corso del tempo giunge a noi nonostante che la loro forma sia stata profondamente modificata in qualcosa che ha il segno dell’abbandono e dell’incuria.

Basta fare pochi metri dentro il parco per accorgersi che il ricco arredo di sculture e di fontane settecentesche che dovevano un tempo decorare la Villa e farne un luogo di delizie è oggi quasi completamente sparito, depredato dai ladri che per tutto il corso del Novecento hanno agito indisturbati sotto agli occhi di un governo incapace di intervenire prontamente. Vengono in mente le aspre e tristemente attuali parole di Federico Zeri che, in una delle tante pagine polemiche contro l’inefficiente amministrazione del patrimonio pubblico italiano, constatava amaramente che «A Roma l’arredo urbano, i monumenti, le sculture sono abbandonati a criminali di ogni sorta; […] da Villa Borghese a Villa Aldobrandini, da Villa Mattei a Villa Doria, la situazione è identica, statue decapitate, sarcofagi infranti, ornamenti rubati.» (da Orto aperto, Milano 1990). Verrebbe da inserire al penoso elenco di ville storiche anche la Villa Sciarra, che con quelle citate da Zeri ha condiviso le stesse sorti nel secolo passato.

Se, però, è oggi possibile trovare un po’ di ristoro passeggiando per i suoi viali o sedendo su una delle sue panchine in una mattinata di sole, è merito dell’impegno collettivo dei volontari che negli ultimi anni sono intervenuti nel parco restituendolo ai fortunati frequentatori del quartiere.

Non so immaginare come dovesse essere quest’area alle origini, quando in età arcaica vi era il bosco sacro a Furrina, misteriosa ninfa protettrice delle acque, o quando divenne parte dell’enorme spazio verde, noto col nome di Orti di Cesare, che dalla collina di Monteverde scendeva fino al Tevere. Anche nella sua veste seicentesca la Villa dovette essere incantevole, quando prima i Barberini, poi gli Ottoboni e i Mignanelli concorsero ad ampliare e ad arricchire con nuovi edifici, fontane, sculture e piante il parco, certamente uno dei più belli tra quelli disseminati nei pressi di Porta San Pancrazio. Per non parlare dello splendore che dovette vivere nel corso dell’Ottocento, quando la Villa divenne proprietà degli Sciarra, che ne estesero ulteriormente le dimensioni prima che venisse gravemente danneggiata dai bombardamenti della Repubblica Romana. Certo, nulla del passaggio dei secoli XVI-XIX è giunto fino a noi, che godiamo del risultato dei profondi interventi compiuti all’inizio del secolo scorso ad opera dell’ultimo proprietario della Villa, il diplomatico americano George Wurts. Egli salvò quanto rimaneva dalla massiccia lottizzazione dell’area condotta dagli ultimi proprietari della famiglia Sciarra, tanto che quando Gabriele d’Annunzio, nel Piacere, vi ambientava la celebre scena del duello tra Andrea Sperelli e Giannetto Ruotolo, la Villa era «già per metà disonorata dai fabbricatori di case nuove». Fu la signora Wurts, poco dopo la morte del marito nel 1928, a farne dono allo Stato, che destinò il giardino a parco pubblico e l’edificio già dimora dei coniugi Wurts a sede dell’Istituto Italiano di Studi Germanici.

Così, per chi andasse oggi a fare una passeggiata a Villa Sciarra, troverà quello stridente contrasto tra lo splendore del passato e il degrado del presente che caratterizza molta parte di Roma e che ferisce chi la percorre col cuore carico di aspettative perché “forestiero” o chi, conoscendola, preferirebbe non vederla così offesa. Forse è anche per questo che le parole di Ragazzi di vita, rilette in quella cornice, fanno sentire in perfetta sintonia con la poetica pasoliniana, tutta percorsa da un sofferto quanto irresistibile desiderio di raccontare la società del proprio tempo…e di criticarla.

 

Riapro gli occhi, mi guardo intorno. Sulla panchina vicino a quella dove mi sono sdraiata per qualche tempo c’è ancora l’anziana signora e i due bambini stanno ancora giocando vicino al grosso pino che getta ombra sul prato. Tutto sembra rimasto uguale a prima...