Quelli del Nord
Al nord ci sono i Vichinghi alti e possenti, a sud i Pigmei piccoli e gracili. Al nord ci sono rigogliosi boschi e verdi pianure, a sud deserti e aride savane. Al nord – sarà a causa del freddo che obbliga a muoversi per riscaldarsi – si lavora alacremente, a sud il gran caldo induce tutti a oziare.
Quelli del sud in genere subiscono, anche se c'è sempre chi capovolge la clessidra e parla (in genere senza grande convinzione) di cieli limpidi e di canzoni conosciute in tutto il mondo e, quando rimane a corto di argomenti, di bei bambini dalle guance rosse o, tentando la impervia strada dei buoni sentimenti, di un modo più scanzonato di fare l'amore.
Ma la partita l'hanno in mano quelli del nord, e si possono citare molte altre loro forti convinzioni che rimbalzano ogni giorno da un angolo all'altro del settentrione, anche se non si comprende bene per quale motivo non ci si limiti a godersi il proprio invidiabile Eden, ma ci si ritrovi sempre a confrontarlo con quanto di negativo avviene qualche parallelo più in basso.
Viene il sospetto che la felicità sia qualcosa di incerto e di difficilmente percepibile, e che quelli del sud – come i neri, i poveri, i marginali in genere – siano in fondo degli indispensabili compagni di viaggio, che consentono a quelli del nord di guardare con soddisfazione alla propria bisaccia semivuota quando la confrontano con quella del tutto vuota degli altri.
È una vera sindrome. Per coloro che vivono al nord, tutto quello che sta a sud vale poco. È così per il panettiere di Melzo che ritiene le sue michette più buone del pane cafone, il nome dice tutto, prodotto dalle parti di Napoli. Come anche il panettiere di Afragola non ha dubbi che il suo pane cafone valga molto più della pita che viene fuori da un forno marocchino. E, c'è da giurare, la cosa procede a sbalzi lungo un itinerario che conduce fino al Polo Sud.
Ma la storia non ha inizio a Melzo, perché il panettiere di Monaco in Baviera assicura che – non parliamo del pane cafone e della pita araba – anche le michette non possono in alcun modo competere con i suoi bretzel. Senza tenere conto di cosa penserà mai al riguardo un esquimese, certo com'è che nessuno avrebbe mai la capacità di cuocere del pane meglio di quanto lui, volendolo, riuscirebbe a fare destreggiandosi in bilico su un lastrone di ghiaccio. Tutto ciò perché ogni essere umano cova dentro di sé il proprio sud e il proprio nord, che non sono soltanto punti cardinali ma anche categorie dello spirito.
E' per effetto di questa sindrome che quasi ovunque prende forma la figura del "nordista" che, bisogna però precisare, è figlia del nostro tempo se è verosimile che Giulio Cesare facesse un discorso molto simile a quello dei vari panettieri di oggi e ritenesse che il pane di chi abitava al Nord dalle parti di Vercingetorige e degli altri antenati del panettiere di Melzo non fosse assolutamente dei migliori. Con la conseguenza che, per assicurarea quella gente un pane migliore, i Romani hanno ritenuto necessario andare a conquistare la Gallia.
Se il problema riguardasse soltanto la qualità del pane sfornato lungo la verticale fra i due poli del pianeta, non ci sarebbe molto da preoccuparsi – e neanche molto da dire. Il fatto è però che "non si vive di solo pane" ma anche di modi di pensare, di parlare, di osservare le regole, di vestirsi, di cantare, di gesticolare e di tante altre cose che oggi inducono "l'uomo del nord" a comportarsi esattamente come faceva un tempo Giulio Cesare quando incontrava qualche suo progenitore. E infatti, se questo pezzo fosse stato scritto ai tempi dell'antica Roma, non sarebbe stato intitolato "quelli del nord" ma "quelli del sud"; e se ai poveri Atzechi fosse venuto in mente di fare un discorso simile con riferimento a Cortez, c'è da essere certi che avrebbero riscontrato negli "uomini dell'est" gli stessi pregiudizi che oggi scorrono lungo l'asse che da nord va a sud.
Quando c'è di mezzo la mente umana, la verità – non è un gioco di parole – è che la verità non esiste. Come potrebbe altrimenti accadere che un abitante del Veneto trovi buffo l'accento napoletano e un abitante di Napoli rida divertito se sente qualcuno che parla usando il dialetto veneto? E lo stesso accade con le più diverse combinazioni fra dialetti differenti, dando luogo a una grande risata collettiva, che forse rallegra i cuori ma impedisce di ascoltarsi. Come invece si dovrebbe fare. Fra i cavalli un nitrito è un nitrito; e a nessuno è mai capitato di vedere un cavallo sorridere vedendo un suo simile nitrire in modo diverso dal suo, e lo stesso accade fra i leoni, le giraffe, le galline, i conigli.
L'"uomo del nord" – come in altri tempi e in altri luoghi gli uomini degli altri punti cardinali – nasce dalla incapacità degli umani di imitare gli animali, che, se spesso si divorano fra loro, lo fanno però per seri motivi e non, come accade con gli abitanti della Baviera, di Melzo e di Afragola, per un pregiudizio che nasce dalla qualità del pane e, passo dopo passo, approda a quella negazione dell'altro che ha condotto Cortez, Pizarro e i colonialisti della nostra epoca a uno sdoppiamento del loro patrimonio morale – con le conseguenze di cui sono pieni i libri di storia.
Se interrogato circa i motivi che lo inducono a storcere il naso di fronte a tutto ciò che gli sta a sud, l'"uomo del nord" si trova un po' in difficoltà. Fa discorsi poco chiari su indolenza, rumorosità, pulizia, tutte cose che da sole non riescono a dare sostanza a quello che in realtà è soltanto un rifiuto delle differenze. Sulle tracce di Esopo, potremmo dire che la figura dell'"uomo del nord", in tutte le sue varianti lungo l'arco della Rosa dei Venti, nasce dalla incapacità degli umani di comportarsi come gli animali. Quando Cristoforo Colombo incontrò per la prima volta gli abitanti di quella che poi sarebbe stata l'America, avrebbe evitato a quei poveretti tanti problemi se si fosse comportato alla stregua del suo cavallo: non nitrendo evidentemente, ma con la stessa capacità che il suo cavallo aveva di restare indifferente di fronte a un nitrito diverso dal suo.