Sul palco con Maximilian Nisi: un interprete in costante divenire
Non sono molti gli attori in grado di realizzare una mimesi completa con il proprio personaggio. Maximilian Nisi è uno di quelli. Un artista in grado di fondere la propria essenza con il ruolo che va a ricoprire. Imperturbabile, devoto e appassionato, l’attore originario di Faenza spicca per la sua etica professionale e per la leggerezza con cui calca il palcoscenico.
Formatosi nella Scuola di Strehler, in seguito ha frequentato il Corso di Perfezionamento per Attori presso il Teatro di Roma, diretto da Luca Ronconi, che gli ha dato modo di venire a contatto con registi quali Peter Stein e Federico Tiezzi. Innumerevoli le collaborazioni, nella sua vita da attore si è cimentato in diversi campi del mondo dell’arte, di cui ha rivelato aneddoti e segreti.
Cinema, televisione, teatro. Ha collaborato con personaggi del calibro di Glauco Mauri e Luca Ronconi. Quale delle persone che ha incontrato nella sua celebre carriera hanno influenzato di più il suo modo di recitare?
La mia non è una celebre carriera. È semplicemente un percorso intrapreso quasi 30 anni fa che ha soddisfatto e continua a soddisfare una mia naturale curiosità, portandomi un po' ovunque. Una scelta di vita fatta in modo spontaneo e anche un po' azzardato. Ho seguito un impulso e il mio impegno costante mi ha dato soddisfazioni, ma anche tanto lavoro da svolgere quotidianamente, lavoro che richiede cura amorosa e dedizione a volte monacale. Ho avuto modo di conoscere grandi registi, interpreti meravigliosi e personalità uniche. Grazie a loro ho compreso che la dedizione al lavoro doveva essere completa, l'impegno quotidiano costante. Mi hanno stimolato ad approfondire, per fuggire quell'ovvietà che teatralmente non risulta necessaria, a non tradire mai il pubblico o un autore. Mi hanno insegnato il rispetto per i colleghi e spinto a soddisfare pienamente il mio bisogno di poesia e di bellezza. Il mio modo di lavorare, di recitare, è il sunto di tutto ciò. Ed è un processo che, credo, finché avrò vita, non si concluderà mai. Siamo in divenire come persone e quindi non possiamo che esserlo anche come interpreti. Strehler parlava di un teatro 'umano'. Quindi prima persone, poi artigiani e solo infine, se si è fortunati e particolarmente illuminati, artisti.
In questo spettacolo divide il palco con Milena Vukotic. Quali emozioni ha provato a recitare con l’acclamata attrice?
Milena è straordinaria. Io ne sono perdutamente innamorato. In scena mi piace ascoltarla e mi limito, da personaggio, a rispondere a quel che mi dice, nel rispetto delle regole che Marcello Cotugno, il nostro meraviglioso regista, ha stabilito per questo lavoro. Amo perdermi nei suoi occhi. La conosco da molti anni. Ci siamo incontrati la prima volta nel 1989 al Teatro Stabile di Torino. È una donna stupenda e un'artista straordinaria. Adoro la sua sensibilità e la sua intelligenza, a volte surreale, mi diverte molto. Mi piace moltissimo sia come persona che come interprete. Artisticamente siamo in linea e ci capiamo, e questo è fondamentale per il lavoro che ogni sera andiamo ad affrontare. Erano anni che cercavamo un testo giusto per noi, un progetto che ci desse modo di dividere felicemente il palcoscenico: lo abbiamo trovato.
Il testo di Coble affronta il rapporto tra madre e figlio. Secondo lei in Italia quali particolarità ha questa relazione rispetto agli altri paesi?
La pièce è molto intrigante: Milena è Alexandra, mia madre. Io sono Chris, suo figlio. Dopo vent'anni i nostri personaggi si ritrovano nella loro casa. Quello che accade è molto denso, tenero ed importante. Dopo una serie di incidenti e di finte incomprensioni, si riprenderanno per mano per affrontare con coraggio, grazie al sostegno l'uno dell'altro, ciò che la vita chiede loro di affrontare. Due anime spezzate che si ritrovano e che in qualche modo si ricompongono. Un bel messaggio di rinascita e di speranza.
Si dice che l' Italia sia un popolo di mammoni. Si dice però anche che un figlio, qui da noi, in giovane età difficilmente si allontana da un nucleo familiare senza una ragione precisa o grave che lo spinga a star lontano per vent'anni, senza sentire il bisogno di dar notizie di sé. Le persone del pubblico ogni sera vivono una specie di catarsi. Si ritrovano nei nostri personaggi e fanno un percorso emotivo assieme a loro. Inoltre, la bellezza di questa commedia è che ha un finale aperto, indefinito, e non c'è nulla di più stimolante per l'immaginazione di uno spettatore. Quindi, per tornare alla tua domanda, io credo che il rapporto tra una madre ed un figlio sia forte ovunque, in Italia come altrove. Sicuramente le modalità, come le vicende che l'accompagnano, sono differenti. Forse qui da noi, in Italia, una madre ha uno spirito di sacrificio maggiore, forse i legami familiari sono più forti, più densi e spesso sono vissuti con un po' di apprensione, forse altrove il senso di libertà e di indipendenza è più sentito, ma non credo che tutto questo renda il testo di Coble più vicino al pubblico italiano e ne favorisca il riscontro. Il rapporto tra una madre ed un figlio può avere mille sfaccettature e in questa pièce Coble ha saputo affrontarne molte, con sensibilità sapiente dando modo a persone di cultura e nazionalità diverse di riconoscersi e di ritrovarsi.
Sulla scena c’è anche un albero che riflette i mutamenti del rapporto tra Alexandra e Chris. Quale ruolo gioca la natura nella messinscena?
Un albero cresce assieme a noi. Può esser un muto testimone. Ha delle radici, spesso profonde come quelle che ci legano alle nostre origini. Un albero disegna in modo chiaro il passaggio delle stagioni e racconta il trascorrere ciclico del tempo. Chris, il personaggio che interpreto, entra nella casa della sua infanzia arrampicandosi su di un albero. È un ritorno simbolico molto affascinante. L'albero previsto dal testo di Coble è come se fosse un terzo personaggio e la bellissima scenografia di Luigi Ferrigno ha esaltato questa presenza, rendendola forte e seducente.
Dopo “Un autunno di fuoco” quale spettacolo la vedrà in scena?
Una volta terminate le repliche a Roma, "Un autunno di fuoco" tornerà in Friuli, poi andrà Veneto e infine debutterà a Torino per riprendere nella stagione 2019/20.
A febbraio vestirò i panni del ventinovenne Ross Gardiner nella ripresa del "Mister Green" di Jeff Baron, del quarantenne Chris in "Un autunno di fuoco" e del cinquantenne Maurizio Setti ne "Il piacere dell'onestà", lo spettacolo che hai visto la scorsa primavera. Tre anime diversissime tra loro. Anche solo fisicamente non so cosa mi inventerò. Staremo a vedere.