Apocalypse Now! Il Delirio Del Capitano Willard
Un film maledetto. Apocalypse Now si portava dietro una maledizione di natura sconosciuta. Chi lavorò al capolavoro di Coppola, dagli attori ai macchinisti, giurò di averla combattuta realmente la “guerra”.
Martin Sheen fu colpito da un infarto, Marlon Brando recitava a piacimento e gradiva la penombra causa il suo essere in evidente sovrappeso, Dennis Hopper non disdegnava alcolici e droga per calarsi al meglio nel ruolo del delirante photoreporter. Anche Coppola non fu da meno e pensò al suicidio.
Al malsano clima psicofisico si aggiungeva quello meteorologico: tifoni violentissimi e tempeste si abbatterono sul set, così che milioni di dollari del budget stanziato dalla produzione evaporarono. Sull’orlo di un collasso generale il film si concluse miracolosamente, e Apocalypse Now si aggiudicò la palma d’oro a Cannes, tre golden globe e - solo - due premi oscar.
Il capitano Willard apre gli occhi dopo le visioni di fiamme e distruzione. Nel dormiveglia, le pale dei ventilatori sopra la testa diventano quelle assai più grandi degli elicotteri americani che sganciavano morte sul Vietnam. Affacciato lo sguardo oltre la tendina della finestra, il capitano si accorge di essere “ancora” a Saigon, nel mondo civilizzato. Willard sa di non appartenere più alla civiltà, perché il suo habitat è ormai la giungla. Ed è li che deve tornare. L’attesa di una nuova chiamata dilata il tempo e l’uomo è colto da una nevrosi entro le mura della sua camera d’albergo.
La scena è di notevole impatto emotivo, giocata sui primi piani a cui seguono campi medi della stanza per evidenziare l’angoscia e il senso di prigionia. Inquadrature frontali, e altre in cui l’occhio della macchina da presa si alza o si abbassa, rendono lo spazio più profondo, mentre il montaggio usa dissolvenza incrociata per visionare gli orrori della guerra nella mente di Willard. Chiudono la scena gli stacchi dell’ultima fase del delirio.
A livello recitativo c’è poca recitazione e tanto realismo. Coppola aveva infatti rinchiuso Martin Sheen in quella angusta camera per due lunghi giorni, dove l’attore non aveva fatto altro che bere e riposare. Ciò che vediamo nella scena è dunque reale: reale è lo stato confusionario e di ubriachezza, reale è il pugno sferrato allo specchio. Reali sono anche le lacrime e il sangue. La troupe voleva intervenire e fermare la rappresentazione, ma attore e regista non volevano alcun intralcio o intervento. I due ottennero qualcosa di superbo, descrivendo al meglio la condizione psicologica di un reduce.