Adelasia: una cantautrice controcorrente

Ascoltare le sue canzoni è come leggere il suo diario personale. Una voce sensibile tinta di note fra l’Indie e il Pop che accarezza l’ascoltatore trasportandolo in un vortice acquoso fra la tristezza e la voglia di cantare. La fascinazione per la musica francese e belga aggiunge un tocco raffinato che ne fa una cantautrice emergente decisamente originale nella musica italiana.

d48e7043-8207-49a4-86c4-956f3087d0ee.jpg


In una scena musicale dove risuonano nomi curiosi e bizzarri, tu hai scelto di utilizzare il tuo vero nome, perché?

Inizialmente pensavo di utilizzare il nome “Dada” per il mio progetto musicale, perché mio fratello (che è più piccolo di me) quando eravamo bambini mi chiamava così e ancora oggi i miei amici mi chiamano con questo soprannome. Poi però ho pensato fosse troppo assimilabile al movimento dadaista, e allora ho optato per il mio nome che è già molto particolare. A dire la verità non ci ho mai fatto pace quindi ho pensato che potesse essere un’occasione per iniziare ad apprezzarlo.

Come mai non ci hai mai fatto pace?

È un nome molto strano, tutti lo storpiano, lo sbagliano. Ora però ho imparato ad apprezzarlo, mi piace e mi contraddistingue.

Tu sei nata e cresciuta a Lucca, cosa ti ha portato a Roma?

Sì sono stata a Lucca fino ai diciotto anni, poi ho deciso di venire a Roma non solo per studiare, ma perché avevo proprio voglia di vivere qui. La mia famiglia inoltre è romana, quindi sentivo questa spinta verso le mie radici e ho deciso di venire qui a studiare (storia dell’arte n.d.r.), e non credo che me ne andrò mai perché questa città mi piace tantissimo.

Quando è arrivata la musica?

È arrivata dopo, in realtà non avevo mai pensato di fare musica. Ho iniziato a suonare la chitarra così per divertimento, poi ho preso delle lezioni di canto perché mi piaceva molto cantare. Da lì ho scritto le prime canzoni ed ho conosciuti i ragazzi di Sbaglio Dischi, a cui sono piaciute molto le mie canzoni e quindi è nato poi il progetto. Fino a quel momento però l’idea di fare musica non era mai stata una possibilità per me. Quando mi dissero di iniziare a lavorare insieme per me fu una sorpresa, è come se ti danno il DAS e ti dicono di costruirci un castello e tu non sai neanche da che parte cominciare, perché l’idea di fare un disco così dal nulla avendo scritto solo due canzoni per necessità è difficile.

Hai sempre scritto anche sotto altre forme?

Sì ne ho sempre sentito la necessità. Scrivo diari da quando ero alle elementari, e da lì ho sempre continuato e scrivevo tutto. Quando ero piccola scrivevo ogni giorno quello che avevo fatto durante la giornata, perché da bambino non ti focalizzi sui pensieri, non ti metti a scrivere il tuo pensiero ma le tue azioni. C’è una trasformazione nei miei diari da quando scrivo solo quello che faccio a quando inizio a scrivere di quello che penso fino a quando scrivo solo quando soffro. Molte persone oggi mi dicono che le mie canzoni sono come dei diari.

Dalla tua musica si percepisce l’esigenza di scrivere.

Le mie canzoni nascono da un bisogno di mettere per iscritto quello che provo e sono molto concrete, non ci sono tante figure retoriche o immagini, è molto realistico quello che scrivo perché è quello che mi accade, nel bene e nel male. È molto liberatorio poter vedere quello che vivo sotto un’altra forma, vederlo concretamente e ascoltarlo in una canzone.

“Appunti e parole per cambiare d’umore” scrivi in Umido, per te la musica è terapeutica?

Sì lo è. In un’altra canzone dico che ho scritto “righe bianche su buchi neri”, perché sebbene la mia scrittura mi aiuti io scrivo di cose talmente grandi che sono dei buchi neri emotivi, è appunto scrivere delle righe bianche, cioè trasparenti, su cose che sono molto più grandi di te come i buchi neri.

C’è un luogo fisico che ritorna nelle tue canzoni, e in particolare torna questa immagine dello sprofondare nel letto.

Mi piace stare al letto (ride n.d.r). Ci ho pensato molte volte, e sono due i luoghi che ritornano spesso nei miei testi: il mare e il letto. Il letto e la mia camera sono i posti dove nascono le mie canzoni, quando sono da sola con me stessa, col mare invece c’è un rapporto strano perché mi piace ma allo stesso tempo ne ho paura.

Quindi scrivi solo quando sei sola in casa o ti capita di scrivere in giro anche per la città, magari ispirata da alcuni luoghi?

Mi capita di andare in giro magari in motorino e di farmi ispirare dalla città o dalle persone, mi affascinano molto le storie delle persone, però principalmente scrivo quando sono da sola ed ho la possibilità di ascoltarmi. Non è un caso che le mie canzoni le abbia scritte principalmente a Lucca, perché a Roma sono sempre circondata da persone e ci sono sempre tante cose da fare. Quando torno a Lucca è come ritornare un po' all’adolescenza e all’infanzia, poi la mia casa è isolata in campagna quindi questa chiusura e questo bisogno di autoanalisi si sente ancora di più.

Allora il periodo di quarantena e di isolamento forzato ti avrà stimolato?

No per niente guarda, zero! Ho scribacchiato ma non ho concluso neanche una canzone. Ho suonato e cantato tantissimo però non ho scritto niente. C’è anche da dire che ero sempre in compagnia con le mie coinquiline e quindi forse non avevo neanche lo spazio emotivo da ritagliarmi per scrivere.

Una cosa molto carina che ho notato sul tuo profilo Instagram sono le “storie Treccani”, dove racconti l’etimologia di alcune parole.

Mi diverte molto farle, penso che sia davvero curioso scoprire da dove vengono alcune parole. Ce ne sono alcune che usiamo a sproposito che invece magari avevano degli altri significati, e parole che hanno alle spalle storie curiose e divertenti. Quando parlo o quando ascolto gli altri a volte mi viene in mente che alcune parole sono strane e mi chiedo da dove vengano. (Storie Treccani)


Quella che ti ha colpito di più?

Panico, che viene dal mito di Pan, il dio greco metà uomo e metà caprone che si divertiva a spaventare e importunare le ninfe facendole cadere in uno stato appunto di “panico”.

Tornando a parlare della tua musica, “Controcorrente” è un singolo che farà parte del tuo disco d’esordio in uscita in autunno; che significa per te essere controcorrente?

Essere sé stessi. Non amalgamarsi troppo alle mode, ai trend, alle richieste di mercato. Per me quindi andare controcorrente è essere me stessa ed essere coerente con chi sono davvero.

“Il futuro qui è assente, il futuro qui è assente”, sembra un motivetto carino da cantare eppure è un grido piuttosto forte di una generazione che non vede un futuro propriamente roseo.

Accendendo la televisione e ascoltando un telegiornale ti viene una depressione totale, a maggior ragione ora con il Covid. Ci sentiamo sempre dire che non c’è futuro, che anche se ci laureiamo non troveremo lavoro, avremmo bisogno di più positività e ottimismo. Nella canzone infatti la ragazza si chiede “dove cazzo è il mio futuro? Non riesce a immaginarlo, ma ci vorrebbe andare… controcorrente”.

Il video musicale di questa canzone è molto variopinto, nonostante quindi la poca leggerezza del testo avete optato per un’estetica colorata e abbastanza Pop.

Sì proprio perché la canzone ha un testo un po' pesante la nostra idea era di fare una cosa colorata e più allegra e divertente, anche per dare un senso di speranza. Non voglio che la mia personalità e la mia musica siano sempre legate alla malinconia, per cui il video bilancia un po'. Giuro comunque che scriverò anche dei momenti felici (ride n.d.r).

A quale pittura assoceresti la tua musica?

A quella di mio padre, che è un pittore. Lui fa principalmente acquerelli con paesaggi marini, con pini marittimi etc. Quindi se dovessi associare la mia musica ad un dipinto sarebbe un paesaggio di mare.

Però dicevi prima di avere anche paura del mare…

Sì un po' perché non sono brava a nuotare e un po' per la paura dei pesci e dell’acqua. È una paura che ho interiorizzato e credo di averla messa inconsciamente nella musica.

Ce la canteresti ora una tua canzone?

Certo!