Arcade Fire - "Everything Now": You deserve love
Genere: Post Disco; Rock Elettronico
Durata: 47' 11''
Etichetta: Columbia Records
Il disco più atteso di questo tormentato 2017, musicalmente parlando, è finalmente arrivato nel bel mezzo di un’estate torrida, tanto ricca di hit e motivetti da spiaggia, quanto povera di lavori miliari da consegnare ai posteri. Ed eccoli allora, come un'oasi nel deserto, gli Arcade Fire, testimoni della loro quinta ed ultima fatica.
Everything Now è il primo progetto della band canadese firmato per una major, la Columbia Records, e conta una produzione di primissimo livello, che vede spiccare su tutti il nome di Thomas Bangalter dei Daft Punk. Un’azione dovuta quella di scrollarsi di dosso l’etichetta indie ed abbracciare una dimensione più ampia, poiché gli Arcade Fire sono ormai un vero e proprio fenomeno di massa, di costume, nonché musica di riferimento di questi anni 2000.
Ancora una volta Win Butler e compagnia decidono di non adagiarsi su quanto fatto in precedenza o cavalcare l’onda della notorietà, rimescolando nuovamente le carte, per far sì che ogni singolo album suoni sempre come fosse il primo della loro luminosa carriera.
La deriva dance, che si era cominciata ad intuire già in alcuni brani dell'lp The Suburbs, esplose in maniera roboante nel successivo Reflektor, doppio disco che inserì nuove e diverse sonorità nella musica dei canadesi, distanti svariate galassie dai toni epici della loro miracolosa opera prima (Funeral, 2004) e di quelle alienanti-apocalittiche di Neon Bible.
Everything Now, tutto e adesso, risponde ad un unico imperativo, ballare. E i primi quattro estratti che hanno anticipato l’intero lavoro ne sono la dimostrazione: Signs of Life è molto vicino ad un rap elettronico ben cadenzato dal clapping delle mani in sottofondo, Electric Blue vede la voce femminile di Chassange trasformarsi, imitando le regine della disco music anni ’70; la title track (Everything Now per l’appunto) è introdotta da una colorata tastiera che rievoca Dancing Queen degli Abba, forte di cori, fiati e di un ritornello magnetico e immediato.
Ascoltare per credere.
Creature Comfort è delle quattro tracce rilasciate in anticipo, la più interessante, sia per il testo, che tratta un tema scomodo come quello del suicidio e lo correla ai piccoli piaceri della vita quotidiana in un rapporto ossimorico, sia per il comparto musicale duro ed incalzante, pur sempre ballabile nonostante la tematica delicata, in pieno stile Arcade Fire. Quel “Dio rendimi famosa, e, se non ci riesci, fa che sia indolore”, e ancora “Suicidio assistito, sogna sempre di morire, mi ha detto che ci è andata vicina, ha riempito la vasca da bagno e ha messo il nostro primo disco” cantati da Win Butler con voce sempre più vicina a quella di David Bowie, sono la testimonianza di questa natura dicotomica del singolo.
Non solo suicidio (con l’immagine della vasca da bagno riempita d’acqua che torna in altri momenti del disco), ma anche consumismo e flusso di informazioni infinite che riceviamo attraverso social network e televisione tutti i giorni, costantemente. Sono questi gli argomenti principali attorno a cui orbitano i versi delle canzoni. Anche la cifra stilistica subisce un mutamento, che denigra strofe pompose quasi poetiche, prediligendo frasi asciutte – talvolta reiterate fino allo sfinimento – e di incredibile immediatezza, avvalendosi dell’artificio della ripetizione e del gioco di parole. A tal riguardo sono emblematiche le due mini tracce equivalenti di Infinite Content e Infinite_Content: la prima in chiave punk-rock, la seconda un lento country, in cui i valori di significante e significato vengono scardinati, unica volta dove le chitarre prevalgono sui sintetizzatori.
La parte migliore di tutto il lavoro viene però dispensata nella sezione finale, dopo una parte centrale più debole, quasi ad invogliare l’ascoltatore a restare nel disco fino all’ultimo secondo; la coda si compone così di un terzetto di tutto rispetto: apre Good God Damn, che continua a far scorrere quel groove presente lungo tutte le tracce, con un basso riecheggiante i Pink Floyd e qualche plettrata di chitarra, fino ad ora appena sussurrata, sempre ben accetta; segue Put Your Money On Me una commistione di suoni elettronici di synth e tastiere, che ci catapulta subito in un videogioco o film d’azione degli anni ’80; chiude We Don’t Deserve Love, la vera gemma preziosa, piazzata in dodicesima posizione, proprio perché deve essere raggiunta, desiderata. Qui regnano le riflessioni al crepuscolo di un trasgressore, le cui ferite tornano ad aprirsi, e solo i controcanti angelici riescono in parte a rimarginare.
L’opera è concepita come circolare, la cui origine e fine coincide nei due frammenti semispeculari Everything_Now (Continued) e Everything Now (continued), in un loop perpetuo e infinito.
Gli Arcade Fire riescono a toccare in quest’ultimo long playing svariati generi più o meno moderni, dalla dub al rocksteady, dalla dance pop all’electro beat, facendo convivere senza troppe difficoltà varie epoche musicali, mostrando per l’ennesima volta versatilità e senso del gusto. E continuando ad ampliare il loro ventaglio musicale.
Il punto di forza risiede nel sound, dove ogni mattoncino sonoro è ben affiancato all’altro senza lasciare nessuno spazio vuoto, ergendo un muro analogico invalicabile. Inoltre, far suonare un disco come gli Abba, i Talking Heads, Giorgio Moroder e i Tame Impala contemporaneamente, non è da tutti.
I fan più accaniti della band storceranno il naso per Everything Now, un po’ come accadde dopo l’uscita di Reflektor, che però venne rivalutato col passare del tempo e degli ascolti. Ed è qui che risiede il valore di un’opera, nel far cambiare opinione ad ogni ascolto successivo al primo.
Il pop può essere celebrato come genere aulico o rimarrà sempre ancorato ad una visione commerciale e subordinata? È questa la sfida lanciata dagli Arcade Fire nel 2013, e che prosegue oggi, quattro anni dopo.
Parola d’ordine: tutto adesso.
Gradimento: 7.8/10
Tracce Consigliate: "Creature Comfort"; "Put Your Money On Me"; "We Don't Deserve Love"