Cesare Garboli, “Un uomo pieno di gioia”
Mi sono domandato cosa abbia spinto gli editori di minimum fax a pubblicare questo testo, a separarlo dai “Diari” di Antonio Delfini di cui è l’introduzione e ai quali quindi, in teoria, sarebbe indissolubilmente legato. Vada pure che Garboli stesso abbia estrapolato la prefazione, insieme ad altre, per inserirla in “Scritti servili”, è una decisione dalle ragioni chiare. C’è da chiedersi piuttosto perché ora minimum fax abbia scelto proprio questa, fra le prefazioni, per darle dignità di testo autonomo meritevole inoltre, lei prefazione, di una sua propria prefazione.
L’argomentazione plausibile di un’economia della pubblicazione, di una posizione sul mercato, per quanto lecita, non sarebbe sufficiente. Neanche basta l’altra argomentazione, quella sul valore dell’opera in sé, o meglio, bisognerebbe enunciare questo valore, chiamarlo per nome e renderlo intelligibile. D’altra parte scrivere materializza: l’atto di scrivere afferra i pensieri, li svelle dalla loro condizione aerea di fantasmi e, per mezzo del caglio della parola scritta, li agglutina in manifestazioni fisiche.
Scrivere aiuta a comprendere, di certo. Mi si perdoni l’intromissione, ma commentare un libro letto ha per me una ragione pratica, fra le altre: mi costringe, nel momento in cui scrivo, ad intensificare, se non proprio ad inaugurare, il processo di comprensione, ad essere maggiormente cosciente riguardo ciò che ho letto, a spalancare la porta della chiarezza, che sia o meno socchiusa.
Non avrei dato voce a queste sciocche osservazioni se Garboli non avesse scritto che il comporre l’introduzione ai “Diari” di Delfini lo abbia costretto ad evocare l’amico dal regno dei morti e a riportarlo, quasi materialmente, accanto a lui e, in definitiva, a fare con lui i conti, a fare i conti con la sua morte: “...la morte di Delfini era una realtà neutrale, di quelle che s’insediano stabilmente nella vita e perdono forza emotiva, come certe camicie lavate e stirate tante volte, che indossiamo senza più ricordo del loro colore originario. Ma ora Delfini è qui vicino a me. Come faccio a seppellirlo?”
Per Garboli dev’essere stato allo stesso tempo catartico e doloroso scrivere questa introduzione che travalica la sua mera funzione e - sì, hanno fatto bene quelli di minimum fax - diventa a tutti gli effetti un testo che, lungi dall’essere claudicante, dall’essere amputato, si regge sulle sue gambe. Ora posso dire cos’è che gli dà valore. “Un uomo pieno di gioia” assume la sua indipendenza grazie al sentimento sotto l’influsso del quale sono certo che Garboli l’abbia scritto: un amore profondissimo. L’amicizia è un sentimento d’amore, poiché i sentimenti amorosi sono di molti tipi diversi, e non c’è giustificazione all’agire che sia migliore dell’amore. Non vedo altra ragione degna di essere enunciata al cimento compiuto da Garboli di cui, leggendo, si può percepire tutta la dedizione.
Abbiamo di fronte, quindi, il ritratto di un uomo fatto da qualcuno che lo amava, sì, senza però la cecità dell’amore sentimentale, dell’amore romantico. Vedo l’amicizia come una forma d’amore più avveduto, pur navigando nel mare dell’indulgenza che è l’amore, ma la cui vista è sicuramente meno appannata, forse la testa riesce ad emergere a prendere aria più spesso. In questo specifico caso, poi, la qualità del sentimento si è sposata con la qualità della scrittura, un felice matrimonio nient’affatto scontato.
In ogni caso l’amicizia, questa amicizia che ha veste di legame indissolubile e non è un sentimento superfluo, ha qui il potere di ricreare una vita. Il risultato è talmente ben riuscito da avermi profondamente commosso. Sono contento che questo libro sia giunto a me proprio come un dono d’amicizia e che, nei giorni in cui sono rimasto sotto il suo influsso, io abbia incontrato vecchie amicizie e ne abbia riassaporato il gusto molto dolce: forse, mi sono detto, la sola forma di amore per cui la lontananza diventa sopportabile è proprio l’amicizia.