Il fascino di Civita Castellana, tra storia e il Grand Tour
Il 22 giugno del 1816 il poeta inglese William Haygarth fissava in un rapido disegno a penna ed acquerello il panorama dischiusosi ai suoi occhi alle porte di Civita Castellana, una delle tappe toccate durante il suo tradizionale viaggio in Italia. Duecento anni dopo, la vista che si para davanti al visitatore che giunge da Roma dopo aver percorso in sequenza la Cassia e la Nepesina, è praticamente la stessa.
Al netto dei comodi parcheggi aperti nella macchia di alberi a destra e della strada che oggi permette di aggirare il centro abitato, gli elementi che compongono il paesaggio sono rimasti sostanzialmente immutati. Sulla sinistra, a fare da quinta visuale, il ripido ripiano tufaceo su cui poggia la parte terminale della cattedrale di Santa Maria Maggiore, accompagnata da qualche scampolo di casa; sullo sfondo, svettante sopra un’intatta campagna punteggiata di alberi, la sagoma del Soratte, che da qui, nella sua solitaria imponenza, conserva un po’ di quell’aura magica di montagna sacra con cui, nelle nebbie dei tempi, veniva percepito dalle primigenie popolazioni del Lazio.
La visita di Civita Castellana inizia dal suo cuore religioso, la Cattedrale di Santa Maria Maggiore, edificata a partire dal 1185. Il cantiere della chiesa fu ultimato nel 1210 con l’innalzamento del meraviglioso portico di facciata, autentico capolavoro dei Cosmati, la famiglia di marmorari attivissima a Roma tra XII e XIII secolo e iniziatrice di un fortunatissimo stile decorativo che veniva normalmente dispiegato, all’interno degli edifici sacri, in senso orizzontale, nei magnifici tappeti di tessere e tasselli policromi che costituiscono per esempio i pavimenti di due note basiliche romane, Santa Maria in Cosmedin e San Clemente.
Lo stesso bagaglio di forme, motivi decorativi, materiali e colori si ritrova a Civita Castellana declinato in maniera del tutto inedita all’esterno, lungo l’architrave del candido portico e nelle rifiniture del portale di ingresso. È proprio qui che il principale responsabile dei lavori, Iacopo figlio di Lorenzo, della famiglia dei Cosmati, si firmò in un’epigrafe, identificandosi orgogliosamente come “civis romanus”, cittadino di Roma. La bellezza e il candore del portico non mancò di colpire profondamente i visitatori ottocenteschi di Civita Castellana, come dimostra quest’acquerello del 1839 di Guillaume Bodinier, pittore francese che soggiornava a Roma e che si spingeva di frequente nei centri della Campagna in compagnia del suo amico Corot.
La visita del paese prosegue addentrandosi per le strette e piacevoli vie del centro. Da non mancare la chiesetta di San Gregorio, un piccolo edificio in conci di tufo che conserva ancora pressocché intatte le forme romaniche tanto all’esterno quanto all’interno. Dall’omonima piazzetta, attraverso una breve via e un passaggio voltato, si giunge nella Piazza Matteotti, il vivace centro politico e sociale di Civita. Vi sorgono su un lato l’elegante Palazzo Comunale, la cui veste esterna risale all’Ottocento, e sull’altro la chiesa di San Francesco, da segnalare perché conserva al suo interno una bella tavola con l’Adorazione del Bambino attribuita al più importante esponente della pittura del Quattrocento a Roma, Antonio Aquili detto Antoniazzo Romano.
Seguendo la via XII Settembre, che scende sulla sinistra proprio sotto alla facciata della chiesa, si arriva a uno dei punti più interessanti di Civita Castellana: il Ponte Clementino. Costruito dall’architetto Filippo Barigioni su commissione del pontefice Clemente IX Albani a partire del 1709, è diventato uno dei monumenti simbolici della città, anche grazie alla fortuna riscossa tra gli artisti che passavano a Civita per il Grand Tour. In effetti, attraversando i suoi 90 metri di lunghezza privi di marciapiede e sporgendosi dai suoi bassi parapetti per percepire con un brivido i 40 metri che lo separano verticalmente dal suolo, si può immaginare l’effetto ai limiti del sublime che poteva esercitare sui viaggiatori dell’epoca romantica (quando tra l’altro misurava anche di più, ben 54 metri; fu infatti abbassato a 40 dopo una parziale distruzione subita in una piena nel 1861).
Il visconte Chateaubriand per esempio, insigne diplomatico francese, di passaggio a Civita Castellana intorno al 1803, pur definendo la città “povera e negletta” rimase grandemente colpito dall’elevazione del Ponte Clementino, e nel suo diario di viaggio racconta come si fosse particolarmente divertito a lasciare cadere un sasso nel fiume, contando i secondi passati dal momento del lancio a quello dell’arrivo sulla superficie dell’acqua. Se nei dipinti e nelle stampe il Ponte Clementino appare come una grandiosa struttura lanciata tra i due pianori tufacei di Civita, oggi esso è in parte obliterato a causa della rigogliosissima, diciamo pure incontrollata, vegetazione che si inerpica sui suoi pilastri dalla sottostante forra, il vallone scavato nel tufo dal fiume che vi scorre sul fondo, il Rio Maggiore, un modesto torrente che confluisce, un po’ più a valle, nel Treja, a sua volta affluente del Tevere.
Tornando verso il centro storico, si riattraversa Piazza Matteotti e si esce sul lato opposto, percorrendo la via che conduce dritta fino al Forte Sangallo. Insieme al Ponte Clementino, si tratta di un altro monumento diventato emblematico dell’immagine di Civita nel corso dei secoli, anche e soprattutto per il modo con cui esso si impone sul paesaggio circostante, come vediamo dalla stampa tratta da un dipinto del 1847 di William Brockedon, che ritrae il lato del castello affacciato a strapiombo sulla forra. D’altro canto, Il Forte nacque per assolvere a una ben precisa funzione militare difensiva, nei bellicosissimi anni della fine del XV secolo e in un territorio di importanza strategica fondamentale per il controllo dei confini settentrionali dello Stato Pontificio.
Era il 1499 quando Rodrigo Borgia, papa Alessandro VI, commissionò la costruzione di una fortezza all’architetto Antonio da Sangallo il Vecchio. Le regole della guerra stavano cambiando; l’utilizzo sempre più diffuso delle artiglierie d’assedio, ormai in grado di aprire facilmente larghe brecce sulle mura di cinta dei castelli medievali, molto alte ma dritte e sottili, imponeva dei nuovi modelli di fortificazioni militari. Ecco dunque spiegata la possente cinta pentagonale irregolare progettata dal Sangallo a Civita Castellana, basata sull’alternanza di spesse cortine murarie e bastioni, tre dei quali con angoli arrotondati, per impedire di essere scantonati o indeboliti dai cannoni nemici.
Un profondo fossato separava le mura dal tessuto della città, e l’ingresso era consentito solo attraverso un ponte levatoio manovrato da un rivellino, bastionato anch’esso. Il grande maschio ottagonale che ancora oggi svetta all’interno del perimetro murario venne progettato da Antonio da Sangallo il Giovane, che proseguì l’opera dello zio su incarico del successore di Rodrigo Borgia, papa Giulio II Della Rovere.
La visita all’interno del castello permette di scoprire il bellissimo cortile d’onore, a doppio ordine di arcate inquadrate da paraste, sotto doriche e sopra ioniche; al pian terreno, le volte del portico sono decorate con brulicanti motivi decorativi all’antica, genericamente da riferire a qualche bottega romana di pittori-antiquari al servizio di papa Borgia, i cui simboli araldici, il toro su tutti, spuntano qua e là tra palmizi e puttini.
Dal 1977, gli ambienti del primo piano del castello sono adibiti a funzione museale. Vi è infatti ospitato il Museo Archeologico dell’Agro Falisco, che schiude le porte sulla più antica fase conosciuta della storia di Civita Castellana, nata col nome di Falerii, capitale del territorio controllato dall’antico popolo laziale dei Falisci, di fatto cancellato dalla conquista romana del 241 a.C.
Eppure, il fascino dell’antico toponimo rimase vivo nei secoli. Se torniamo al disegno di Haygarth da cui siamo partiti, vediamo che nella piccola iscrizione in alto a destra, accanto alla data, il poeta appuntò il nome originario di Civita Castellana, “Falerii”.
I colti viaggiatori stranieri dell’Ottocento, per quanto abbacinati dalle bellezze e dal dolce clima della penisola, mantenevano la lucida consapevolezza di muoversi non solo nello spazio, ma anche, in senso trasversale, attraverso il ricco tessuto di memorie storiche dei luoghi che visitavano; in poche parole, nel tempo. Se oggi noi riusciamo a mantenere viva questa fiamma, non c’è iper-scientifica ultra-futuristica capsula infra-dimensionale che potrà mai reggere il confronto.