Dead man: il cammino dell'uomo morto
Una locomotiva sbuffa sulle rotaie e, in uno dei suoi vagoni, un tale, di nome William Blake, osserva con cipiglio una lanterna spenta e incrocia lo sguardo d'altri passeggeri: gentiluomini, zotici, cacciatori di bufali e donne in corsetto. William Blake, a dispetto del nome, di poesia non se ne intende, è solo un introverso contabile di Cleveland diretto alla cittadina di Machine; qui conta di essere assunto dalla maggiore società del luogo, di proprietà di un certo John Dickinson.
Le bielle seguitano a sferragliare, il macchinista della locomotiva entra nel vagone - il volto nero di carbone, lo sguardo da invasato - e di fronte a Blake rivolge lui parole sibilline, ammonendolo su ciò che troverà una volta giunto in quella terra desolata. La divinazione del macchinista spezza il silenzio e rivela l'afflato kafkiano del viaggio, scandito dalle prime dissolvenze e accompagnato dal lamento elettrico della sei corde di Neil Young - che improvvisa una colonna sonora minimale, funerea, lapidaria. Nell'inospitale Machine - covo di tangheri, pistoleri, beccamorti e prostitute - dopo esser stato respinto malamente dal boss Dickinson, il ramingo Blake conosce Thel - anch'ella non estranea al mestiere - e dalla sua stanza, tra rose di carta e sangue, comincerà "l'infinita notte" del contabile, fatalmente legata al figlio di Dickinson.
Il timido William Blake, ferito a morte , guidato e assistito dall'indiano vagabondo di nome "Nessuno", vedrà distendersi di fronte a sé i sentieri oscuri della violenza, attraverso foschi paesaggi, e si avvierà - non più da ragioniere ma da ricercato - verso l'estrema navigazione al di là dello specchio d'acqua, la dove ogni spirito torna dopo il proprio cammino terreno.
È estremamente difficile restituire anche solo minimamente una visione tanto abissale, qual è Dead Man, dove Jarmusch opera - come spesso nei suoi lavori - una trasvalutazione poetica del genere, in questo caso western, riuscendo a mettere insieme un'opera assolutamente sui generis: dove ironia e dramma, luce e buio, vita e morte si saldano armoniosamente. Nonostante i suoi oltre vent'anni, è una pellicola che ammalia, rapisce e disorienta. Il bianco e nero - dove il nero profondo permea l'anima del film e si mescola allo stesso bianco, che appare livido, imbrunito - cattura paesaggi "notturni", anche quando sembrerebbe essere pieno giorno, e accompagna l'andare senza sole di William Blake e Nessuno. La strana amicizia tra questi, un bianco "filisteo" e un indiano pellerossa senza tribù, è il vero elemento luminoso del film; la solidarietà e l'umana compassione di Nessuno - che scambia il contabile per il poeta William Blake - porta questi due, stranieri e radicalmente estranei l'un l'altro, affratellati dal caso, verso la fine del viaggio e il viaggio della fine.
“Every night and every morn, some to misery are born. Every morn and every night, some are born to sweet delight. Some are born to sweet delight; some are born to endless night”
William Blake, da “Auguries of Innocence”