L'urlo straziante di Prometeo nella Galleria Corsini

Nomen omen, dicevano gli antichi. Il nome del Titano Prometeo contiene già la sua essenza: “colui che conosce prima”, dal verbo greco προμανϑάνω ("saper prevedere”).

Uomo astuto e preveggente, figlio del titano Giapeto e dell’oceanina Climene, Prometeo fu il creatore dell’uomo e benefattore dell’umanità contro gli dei. Schieratosi inizialmente dalla parte di Zeus durante la lotta dei Titani, rifiutando la forza bruta di questi ultimi, scelse la parte degli uomini quando il re dell’Olimpo rivelò comportamenti tirannici. La sua arguzia lo portò ad imbrogliare Zeus; quando si dovette decidere quale parte degli animali doveva essere offerta agli dei e quale potevano tenere gli uomini per sé come nutrimento, Prometeo coprì la carne migliore con le parti peggiori degli animali e avvolse gli scarti col grasso.

Infuriatosi, il tirannico Zeus negò ali uomini il dono del fuoco. Prometeo però, fortemente legato alle sue creature, si intrufolò di notte sull’Olimpo e rubò il “fiore rosso” da Efesto, il fabbro degli dei, o dalla ruota del sole (a seconda dei miti), per portarlo agli uomini. La punizione fu terribile. All’uomo venne mandata sulla terra la prima donna, Pandora, che aprendo il vaso con i mali darà inizio alle sventure per l’umanità. A Prometeo spettò un male più cruento: fu incatenato in eterno ad una roccia sul Mar Nero, dove ogni giorno un’aquila gli mangiava il fegato che gli ricresceva durante la notte.

Emblema del progresso e della libertà contro il potere, il mito di Prometeo è stato rappresentato molte volte nella storia dell’arte, da Piero di Cosimo a Tiziano, da Rubens a Ribera, fino a Fussli, Kokoschka e Brancusi.

C’è un quadro conservato a Roma che tratta in maniera unica il mito prometeico. Si tratta di un dipinto del pittore napoletano Salvator Rosa, personalità singolarissima del Seicento italiano, artista intellettuale dedito, oltre che alla pittura, anche alla poesia, al teatro e alla satira. Il dipinto in questione si trova in Palazzo Corsini, sede insieme a Palazzo Barberini della Galleria Nazionale d’Arte Antica.

Nella straordinaria collezione raccolta dalla nobile famiglia fiorentina, unica quadreria settecentesca rimasta intatta fino ai nostri giorni, spicca il quadro di Rosa.

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Siamo nel pieno della crudele punizione, nell’acme del mito. Il titano è incatenato alle aspre rupi caucasiche, il paesaggio è desolato, ai margini del mondo civilizzato. Il nero rapace è sceso in picchiata sul corpo nudo, e col suo becco perfora come una lama l’addome, dal quale fuoriescono gli organi in un’esplosione viscerale, quasi splatter. Gli intestini e il fegato sono descritti con straordinaria acribia scientifica, risultato dei suoi studi anatomici e delle sue frequentazioni scientifiche negli ambienti post-galileiani fiorentini. Prometeo si contorce convulsamente, mentre la bocca si spalanca in un urlo straziante, quasi mostruoso, che deforma quello che potrebbe sembrare un autoritratto dell’artista.

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In basso a destra si vede la torcia, strumento con il quale il titano ha donato il fuoco agli uomini, e motivo della tremenda tortura voluta dal padre degli dei.

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Il dipinto è databile alla metà degli anni Quaranta del Seicento, periodo in cui il napoletano si trovava a Firenze e si consacrava come pittore filosofo, e parla una lingua a metà fra il napoletano e lo spagnolo. Lo stile infatti è ancora fortemente legato a quello dei caravaggeschi, e in particolar modo a quello di Jusepe de Ribera, famoso per i suoi martiri di santi incredibilmente crudi e spaventosi, e per la sua pittura così materica ed epidermica.

Nella silenziosa e quasi desertica Galleria Corsini (come le lande desolate del Caucaso), risuona l’urlo prometeico di Salvator Rosa, pittore-filosofo e spirito poliedrico che richiama a sé l’attenzione, cercando nuovamente la calda luce dei riflettori, lui che per tutta la vita aveva ricercato ossessivamente la fama tramite la recitazione, la pittura e la scrittura.