Evangelion, il finale che non volevamo vedere
Esce finalmente su Prime Video Evangelion: 3.0+1.0 Thrice Upon a Time, ultima fatica di Hideaki Anno, opera che ha avuto una lunghissima e tormentata gestazione. L’emergenza sanitaria ha ritardato la sua distribuzione mondiale, ma la vicenda andava già per le lunghe prima, a causa dell’ossessivo controllo esercitato dall’autore sulla propria creazione, che questa volta (si spera) è riuscito finalmente a concludere.
Hideaki Anno, infatti, dopo la fine dei lavori della serie e del film conclusivo (The End of Evangelion) nel 1997 non è riuscito realmente a staccarsi dalla sua opera: così nel 2006 è iniziato il progetto di una tetralogia, uno pseudo remake chiamato “Rebuild of Evangelion”, dove Evangelion: 3.0+1.0 Thrice Upon a Time è il capitolo conclusivo. Tornando alle origini della serie, il primo film del Rebuild ripropone in maniera pedissequa i primi sei episodi, riassumendoli, mentre gli altri tre si allontanano prima progressivamente e poi repentinamente dal copione originale, facendo emergere la volontà di Hideaki Anno di fare qualcosa di completamente diverso. Colori sgargianti, animazioni digitali, nuovi personaggi, un universo completamente rinnovato e ampliato. Tutto regala un nostalgico senso di déjà-vu, ma c’è qualcosa che non torna.
La differenza, d’altra parte, è evidente. Mentre la serie dopo i primi episodi più canonici e narrativi prendeva una piega adulta e profonda, approfondendo la psicologia dei personaggi e aspetti metatestuali in maniera consapevole, il Rebuild si allontana e quasi rinnega tutte queste conquiste. Disinteressandosi completamente dall’idea di creare un lavoro corale, capace di esprimere la complessità dell’esperienza umana e le contraddizioni del nostro presente, l’interesse primario si rivela essere uno: compiacere la folta schiera di fan e fanatici che vogliono ancora una volta visitare quei luoghi, vedere combattere quei robottoni, rapportarsi a quei personaggi, per scoprire dietrologie sulle loro vite e così feticizzarli.
Se anche la serie originale partiva col presupposto di fatturare e quindi costruire questo pubblico, che avrebbe comprato il merchandising, questa lo faceva in modo molto più sobrio e contenuto. Adesso, invece, tutto vive in funzione di questo, e hanno aggiunto persino un personaggio, Mari, che serve per lo più a evocare scenari soft porn nel classico stile di animazione giapponese. In Evangelion: 3.0+1.0 Thrice Upon a Time c’è una profusione di questi momenti abbastanza scadenti e dozzinali, che non hanno nulla di erotico, e che servono solo a interessare un certo tipo di pubblico maschile, presumibilmente adolescenziale.
Accanto a questi momenti leggeri ed estemporanei si inserisce l’apparato narrativo, molto debole e sfilacciato. Capiamo da subito che tutto mira verso una certa direzione, e che c’è persino un certo moralismo di fondo a guidare il corso degli eventi. Il protagonista, Shinji, infatti è “cresciuto” e sta ancora crescendo, così può impedire grazie a una provvidenziale presa di coscienza il presunto disfacimento finale con cui si concludeva tutto nel 1997. Improvvisamente siamo in una favola, anzi in una favoletta. C’è un clima di speranza che rasenta la lobotomia in certi intermezzi tutt’altro che rari, con sguardi fiduciosi e frasette motivazionali. Volendo infondere un senso generale di positività, tutti gli elementi aggiuntivi di tipo “ottimistico” appaiono forzati e arbitrari, inseriti come un’iniezione di serotonina, e non si amalgamano col tessuto originario. La mancanza di coerenza su tutti i piani, infatti, è uno dei grandi difetti di questa creazione. Manca un equilibrio fra la prima parte del film, più piana e distesa, e la seconda decisamente action oriented, e manca soprattutto qualcosa che giustifichi la frettolosità delle conclusioni finali. Quello che emerge però, più che un semplice lavoro discontinuo, è un disperato tentativo di mettere insieme cose inconciliabili con il preciso intento di travisare un materiale che invece una sua determinazione (e una fine) ce l’aveva già. Evangelion è finito da quasi 25 anni. Che il suo creatore all’epoca era depresso e non riusciva a mettere un filtro fra sé e la propria creazione non è un mistero. Che adesso voglia tornare sul “luogo del delitto” e riscrivere addirittura il suo finale, perché evidentemente si trova in un’altra fase della vita ed è in vena di revisionismo, non è sintomo di maturazione e consapevolezza, anzi.
All’esigenza di rispettare l’alterità di un’opera, che nel momento simbolico della sua conclusione si emancipa dall’ideale possesso dell’autore, vivendo una sua vita autonoma, è prevalso il desiderio di negare questa separazione, per marcare morbosamente la sua personale esigenza di un rapporto simbiotico. Ma il rispecchiamento forzato ha avuto come principale vittima la qualità del prodotto, che adulterata dal ricatto emotivo ha subito il destino di quei figli amati male (e quindi odiati), finendo per non superare la prova dell’età.
Evangelion: 3.0+1.0 Thrice Upon a Time è infantile, ed evidentemente si rivolge a un target di pubblico molto più specifico della serie originale, che poteva coinvolgere e interessare praticamente chiunque. I dialoghi passano dall’essere descrittivi e didascalici a inconsistenti quando si affrontano questioni di carattere generale, degenerando nel generico e nell’approssimazione più totale. Grandi concetti si sprecano, ma è tutto un bailamme confuso di momenti action frenetici e lisergici conditi da riflessioni pastorali stile studio Ghibli. L’influenza di Myazaki si fa sentire in particolare all’inizio, quando atmosfere e disegni idillici evocano sfacciatamente i suoi motivi e temi prediletti, inserimento decorativo che stona con l’immaginario post apocalittico in cui è immersa la vicenda. Per quanto riguarda un ulteriore livello di lettura, inutile scomodare il simbolismo cristiano e esoterico, il vocabolario di concetti e nessi segreti che solo Anno e i suoi accoliti possono conoscere, perché si tratta di superfetazioni che complicano la struttura essenziale del film senza rivoluzionarla.
Una conclusione deludente, dunque, ma poco importa. Ci resta sempre la serie originale, con il suo finale aperto (e non depressivo e pessimistico, come molti credono), complesso e non complicato, vario e non confuso, ricco e non ridondante. Quello fortunatamente non è invecchiato, e questo ci fa capire che non avevamo bisogno di questa riscrittura posticcia. La rivoluzione era lì, nell’aprire la forma chiusa dell’anime rendendola qualcosa che potesse dialogare con altre forme espressive, che potesse problematizzare modi e linguaggi senza proporre una narrazione concettuale e formale univoca. Evangelion: 3.0+1.0 Thrice Upon a Time probabilmente non partiva con un intento così ambizioso, e infatti è un semplice prodotto di intrattenimento, peccato sia anche noioso.