Gianfranco Goretti e Tommaso Giartosio, “La città e l’isola - Omosessuali al confino nell’Italia fascista”
Ecco il secondo titolo che ho scelto per celebrare questo pride month 2023. Credo che citarne il sottotitolo faccia comprendere ogni motivo esplicito o sottinteso che mi abbia portato a questa decisione: “Omosessuali al confino nell’Italia fascista”.
Consigliatomi caldamente da un preziosissimo suggeritore di titoli formidabili, pubblicato per la prima volta nel 2006, fino a pochi mesi fa questo libro risultava introvabile. Nell’agosto 2021 ero in visita a Cefalù per fuggire da dispiaceri palermitani e sono per caso incappato in una mostra costruita proprio su questo testo, allestita in quel bel museo Mandralisca. In quella occasione ne ho potuto leggere brani scelti, disponibili sui pannelli della mostra, emozionandomi. Pareva che qualcosa si stesse muovendo nei confronti del testo. Quando, quindi, ho scoperto della sua recentissima ripubblicazione, nel 2022, considerando il legame - se così si può definire - che pareva unirmi alle sue pagine, ho esultato e subito fatto l’acquisto.
Ora il libro l’ho finalmente letto, l’entusiasmo è un po’ scemato: dirò immediatamente, a scanso di equivoci, che non si tratta di un bel libro. È, però, un libro importante. Per articolare meglio quanto ho appena detto devo prima specificare che in questo caso particolare sia opportuno considerare due aspetti in modo separato: l’effettiva funzione di questo testo e la sua forma - lo stile.
Il fatto specifico alla base della ricerca di cui Goretti - principale autore - e Giartosio ci presentano i risultati è l’arresto e l’invio al confino sull’isola di San Domino di quarantacinque «arrusi» catanesi, nel 1939. Queste azioni sono il punto di arrivo dello zelo del questore Alfonso Molina, sono il fatto eclatante, sono il numero folto in un più ampio scenario di “caccia all’omosessuale” che ha caratterizzato l’Italia fascista, procedendo dall’idea di salvaguardia della razza (le leggi razziali italiane risalgono al 1938): «Questo dilagare di degenerazione in questa città ha richiamato l’attenzione della locale Questura che è intervenuta a stroncare o, per lo meno, ad arginare tale grave aberrazione sessuale che offende la morale e che è esiziale alla sanità e al miglioramento della razza».
A prescindere dal suo contenuto, però, un testo ha un modo di raccontare l’esattezza dei dati raccolti: da questo punto derivo la mia insoddisfazione. La scrittura di Goretti spesso cede a quel modo di costruire le frasi - senza verbo, senza soggetto, monche, brevi, amputate - tipico di uno stile piuttosto recente che io personalmente non apprezzo. Non è una caratteristica predominante del testo, che quindi non risulta insopportabile, ma ne sento comunque il fastidio. In secondo luogo, il libro parla di una grande quantità di persone, gli «arrusi» appunto, persone che vengono presentate sia col proprio nome, sia col soprannome col quale erano riconosciute - per esempio Leonardo ‘a Francisa.
Questo porta ad un rapido raddoppiamento dei nomi utilizzati, considerando anche il fatto che nel testo l’autore a volte usa il solo nome, altre il solo soprannome, altre entrambi per parlare di una stessa persona. Nella brevità della “comparsa” di ogni arruso nel testo ciò crea una sorta di dispersione della sua identità. Goretti, infatti, non rinuncia ad essere specifico circa l’esperienza di ogni singola persona di cui parla, volendo anzi perseguire un processo di umanizzazione di freddi nomi di schedati. Attorno ad ogni arruso, poi, gravitano ovviamente i suoi familiari o conoscenti; le voci si moltiplicano con grande velocità. Inoltre, le vicende di ogni singolo arruso sono presentate a frammenti, un po’ in ogni capitolo, insieme a quelle di molti altri contemporaneamente.
Il problema, quindi, è che manca una sistematicità tale da poter rendere facilmente memorizzabile l’intera vicenda di uno specifico idividuo. Il risultato è che i nomi mi si sono neutralizzati sotto gli occhi; se Goretti aveva come obiettivo l’umanizzazione degli arrusi, attraverso il racconto delle loro sofferenze, tale volontà è venuta meno a causa di un disordine tale da allontanare il lettore dall’empatia. Ogni nome incontrato è quasi il nome nuovo di uno sconosciuto. Sebbene sono convinto che l’autore abbia in parte considerato questo problema, tant’è che propone un indice dei nomi a fine libro, questo strumento, ahimè, non lo risolve. Forse, l’organizzazione del testo avrebbe potuto presentare i fatti generali senza dovizia di specifiche personali, per poi eseguire un ritratto approfondito di ciascun arruso a sé, decontestualizzato dal tempo della narrazione ma più ancorato all’individualità di ogni persona.
Se ciò non bastasse, la confusione causata dalla dispersione delle informazioni non è aiutata dalle continue e non necessarie anticipazioni che disturbano la lettura: capitoli in cui alla prima riga si comincia a parlare del 1939, alla riga successiva raccontano immediatamente di un anno o due anni precedenti, creando un resoconto che ha l’immediatezza della lingua parlata e la stessa carenza di organizzazione. Se la dispersione delle informazioni personali era l’unica via, seguire il rigido ordine cronologico di ogni altro evento era doveroso. Forse, lo storico Goretti si è perso un po’ nella “letteratura”. A riprova di ciò, la più algida, cronologicamente pedissequa e distaccata appendice offre un brano particolarmente ordinato, chiaro e - sembrerà strano forse al suo autore - godibile.
Al di là dello stile, però, un saggio ha uno scopo ben definito, un’utilità. Questo è il merito del libro, quello non da poco di raccontare una storia pressoché dimenticata ma importantissima, quella della repressione più o meno sistematica della “pederastia” (parola utilizzata in quell’epoca) nell’Italia fascista, giacché «ciò che accadde in Italia […] è ancora in gran parte sconosciuto, come del resto la storia dell’omosessualità nel nostro paese.» Caratteristica identitaria italiana pare essere, nel ventennio - e solo nel ventennio -, l’ipocrisia. L’Italia fascista, e badate bene, sto parlando esclusivamente dell’Italia fascista, sembra provare un senso di imbarazzo nei confronti dell’omosessualità, non colpendola direttamente con leggi che ne legittimerebbero l’esistenza dicendo, agli occhi del mondo, “siamo un Paese con un problema di omosessualità”: è chiaro che un atteggiamento simile equivarrebbe ad ammettere di essere un Paese di omosessuali, sia mai! Perciò, nella virile Italia fascista, e sottolineo ancora, esclusivamente in quella fascista, «l’omosessualità veniva colpita quando diventava troppo visibile - cioè quando diventava visibile».
Il retaggio dell’omofobia e della profonda misogina - giacché queste due forme di intolleranza sono strettamente connesse - che avevano proliferato sotto il regime fascista, e non solo, non cessa recisamente dall’oggi al domani, ma sopravvive e, anzi, talvolta si rafforza soprattutto là dove manca il racconto: «se il fascismo era caduto, la discriminazione di cui esso era causa e sintomo godeva ancora di ottima salute.» In Italia è mancato il racconto.
Ora però, esiste questo testo serissimo. “La città e l’isola”, che ha fra gli altri il pregio di essere scientificamente ineccepibile, nella precisione della ricerca e della presentazione dei dati raccolti, dà una contezza dell’attacco ad una “comunità” che non era ancora tale, inconsapevole di sé e più propensa all’omertà piuttosto che alla solidarietà. Questo aspetto, probabilmente, è ciò che più mi ha colpito del testo: non mi sorprende che la società fascista sia anche omofoba, ma che le sofferenze generassero distacco in chi le subiva piuttosto che vicinanza, al contrario, sì. Ogni arruso era solo, così sembra. Ogni arruso ha subito violenze tali da lasciare profondi segni, nel proprio corpo, nella propria dignità, con i quali ha continuato a vivere silenziosamente.
Ogni arruso è rimasto solo dopo la liberazione, basti pensare al fatto che sono pressoché inesistenti le richieste di indennizzo allo Stato in seguito al confino. Dimenticare era la volontà degli arrusi avvallata dalle proprie famiglie e da una popolazione che festeggiava la caduta del regime applicandone, suo malgrado, le stesse discriminazioni. Adesso viviamo in un’Italia un po’ diversa, fortunatamente, che però ancora ferisce e non tutela a sufficienza la vita dei membri della sua vasta, vastissima comunità LGBTQIA+, oggi però più consapevole, orgogliosa, più unita.
Ecco perché libri come questo sono importantissimi, ancor più necessari nel nostro Paese facile al pericolo e dalla memoria dimentica. Le nostre vittorie sono tutte mutilate, i nostri dolori sono ancora vivi, le nostre leggi sono ancora arretrate, le nostre tutele sono ancora labili, i nostri diritti ancora negati, la conoscenza della nostra storia si ferma ancora al binomio gay-genio dei grandi nomi dell’arte senza approfondire la storia delle persone comuni. È preziosa, quindi, la riedizione di questo testo nel 2022; di questa preziosità la prefazione di Vittorio Lingiardi è la perla: la sua riflessione è incisiva e lungimirante, soprattutto considerando il fatto che è stata pubblicata pochi mesi prima delle ultime elezioni politiche. Leggendola, mi sono augurato che potesse invecchiare presto. Purtroppo, sto continuando a farmi lo stesso augurio ancora oggi, ma reso più veemente da una continua sensazione di pericolo. Perciò, che si legga questo libro, che aumenti la consapevolezza, che si sappia quel che è stato! La conoscenza non solo indica la via della salvezza, ma aumenta la dignità di chi legge e di chi viene raccontato.
Buona lettura