Golden Gate

Non si vedeva nulla ad un palmo di distanza, i suoi occhi iniziavano a bruciare. Cercava invano di farsi largo con le braccia oltre quello spesso strato di nebbia che lo circondava, girando vorticosamente senza fermarsi per trovare una via d'uscita; ma tutto ciò che riusciva a vedere erano solamente i suoi piedi. Mettendo meglio a fuoco Phil si accorse che non aveva scarpe e che i suoi arti inferiori erano pieni di escoriazioni. Non si ricordava come se le fosse procurate né come fosse finito in quel posto. All'improvviso un bagliore accecante lo fulminò, mentre voci indistinte gli gridavano addosso, intimandogli di spostarsi. Lui urlava, si dimenava, ma era come se gli altri non riuscissero a sentirlo, a capire le sue parole. Poi un colpo, il contatto con il suolo, il sangue che gocciolava dalla bocca e infine il rumore delle sirene. A quel punto la nebbia si impossessò totalmente della sua vista, coprendo ogni suo pensiero.

Quando riuscì ad aprire gli occhi, Phil si risvegliò in un'algida stanza d'ospedale dov'era stato portato dopo l'incidente. Tutto era immobile tranne la sua testa, che continuava incessantemente a girare. Sceso dal lettino si guardò allo specchio ma non si riconobbe: i suoi capelli erano scarmigliati, sporchi e non emanavano un buon odore – non che il resto del corpo profumasse –, eppure Phil era sempre stato attento alla pulizia e all'ordine, uno dei motivi per cui aveva scelto la carriera militare, che lo aveva ripagato con diverse medaglie. Ma dov'erano adesso tutti quei riconoscimenti? Dove li aveva messi? La sua memoria era avvolta dallo stesso strato di nebbia che ammantava la città in cui si trovava, liberando solo per poco tempo alcuni dei suoi ricordi. Uno in particolare restava ancora vivido: si trovava in Siria, finalmente era stato assegnato ad una missione ed era pronto a servire il proprio paese. Era laggiù per verificare se vi fossero tracce di armi chimiche sui rilievi che gli venivano portati. La maggior parte del suo lavoro si svolgeva in caserma, ma un giorno venne chiamato per un'operazione all'esterno. A Damasco il cielo era stellato notte e giorno, ma molti di quei corpi celesti si rivelavano missili esplosivi che si scagliavano come meteoriti sugli edifici della città. Uno dei tanti sembrava aver raggiunto un loro reparto in azione; si trattava di un'emergenza, per questo fu chiamato anche lui. Insieme alla sua unità si inoltrò per le vie della città deserta, facendosi largo tra le macerie. Nulla sembrava essere sopravvissuto a quel cataclisma bellico, giusto un palazzo in lontananza aveva ancora la forza di resistere, reggendosi sulle sue scarne fondamenta: era quello il punto da cui avevano ricevuto la segnalazione dai compagni di reparto. "Sfonda la porta Phil" gli disse il sergente. Lui impugnò il fucile dalla canna, si avvicinò e lo scaraventò con tutta la sua forza addosso alla soglia. La porta si aprì, ma la sua memoria si oscurò di nuovo.

Strappò i fili che lo imprigionavano al lettino, raccolse i suoi vestiti sudici e sbrindellati, e scese in strada. Non incontrò nessuno lungo il tragitto, o almeno era quello che credeva. La vista cominciava di nuovo ad annebbiarsi, fece qualche passo e poi vide un carrello. Pensò subito che qualche cliente del supermercato l'avesse abbandonato, ma non c'erano negozi nei paraggi. Avvicinandosi vide meglio che era pieno di coperte e vestiti, perciò iniziò a rovistare per capire a chi appartenessero. Qualcosa luccicava in fondo, forse si trattava di una tessera o di un documento. Allungò il braccio, lo portò vicino agli occhi e scorse il suo nome: "Philip Parker, medaglia al valore civile per essersi distino nel servire gli Stati Uniti d'America" recitava la scritta. Guardò di nuovo nel carrello e riconobbe molti degli oggetti che vi erano dentro. Mentre cercava di ricomporre i pezzi della propria vita, una voce lo chiamò: "Ehi! Phil! Dove ti eri cacciato?! Andiamo a casa". Lui si girò, blaterò qualcosa, ma l'altro l'aveva già afferrato per il braccio, avviandolo lungo la strada. "Ti porto io. Bisogna stare attenti qui, sono tutti fuori di testa". 

La nebbia avvolse il loro cammino, spegnendo un’altra volta la mente di Phil. Era difficile per lui comprendere ciò che succedeva, i contorni si confondevano, le linee davanti a lui si spezzavano. Di nuovo le grida, le spinte, i rumori. Percorsero diverse miglia a piedi, finché non arrivarono vicini ad un ponte. "Eccoci Phil, siamo a casa" chiosò l'altro. Phil scese fin sotto e, adagiati su alcuni cartoni, trovò altri oggetti che gli appartenevano: un cappello, degli anfibi e la divisa militare. Accanto vide anche una scatola contenente farmaci, ma non riusciva a leggere il nome. La portò a sé, girò il tappo e l'aprì.

"Phil! Levati da davanti, non startene lì in mezzo!". "Alpha chiama Base, servono soccorsi urgenti, vi mandiamo la posizione". "Ricevuto sergente". Non erano tanto i corpi dilaniati a nauseare Phil, ma i suoi compagni che si contorcevano dal dolore, avvinghiati nella morsa della morte dalla quale cercavano di uscire. Provò a voltare lo sguardo per non vedere quell'orrore, ma la sua mente si rifiutò di seguire quell'ordine prima di compierlo. Cadde a terra svenuto.

Le macchine sfrecciavano sopra il ponte e i suoi ricordi si rincorrevano: il ritorno in patria, l'ospedale psichiatrico, gli psicofarmaci, il pullman, il viaggio, la strada. Ma i suoi parenti? Sua moglie? Suo figlio? Phil si sforzò di ricordare, ma la nebbia ritornò a circondare il ponte e ad inghiottire tutto ciò che incontrava, compresi i suoi pensieri. Era per quel motivo che Phil si trovava in quella città. Era per quel motivo che era a San Francisco.

Nella mia immaginazione questa è una storia vera. A San Francisco le persone senza tetto che invadono le strade sono molte e la maggior parte di loro soffre di disturbi mentali. Tra queste, circa il 60% sono reduci di guerra, che trovano assistenza in una delle città più tolleranti della Terra.