Il piccolo Freud
Tu dici "mi sono proprio stufato di lavorare, non vedo l'ora di andare in pensione", il che è comprensibile visto che passi il tuo tempo a smuovere pratiche da un lato all'altro del tavolo. Lui, pronto, "probabilmente stai esprimendo in ritardo il tuo bisogno di separazione dalla famiglia di origine". Un'affermazione buttata lì arzigogolando in piena libertà intorno a quello che ha frainteso leggendo una delle noterelle del tipo La parola allo psicologo che appaiono regolarmente sui rotocalchi e sulle edizioni domenicali dei quotidiani.
Un'affermazione campata in aria perché tu, se invece che a rigirare pratiche passassi le tue giornate a scrutare il cielo in un osservatorio astronomico, diresti probabilmente "quanto è interessante il mio lavoro, l'idea di andare in pensione mi terrorizza". A quel punto lui, pronto, ti direbbe "è chiaro, stai esprimendo il forte legame positivo che ti unisce ancora alla tua famiglia di origine". Tutto l'opposto soltanto perché le pratiche di ufficio sui tavoli e le stelle nel cielo si muovono lungo orbite diverse. Resta comunque irrisolto il dubbio se tu nei confronti della famiglia di origine nutra un sentimento di ritardata ripulsa o di perdurante nostalgia. Dipende dal lavoro che fai? Non è molto convincente.
C'è chi la butta sempre in politica, chi sul personale, chi a ridere. Lui la butta sempre in psicologia. Non ha letto una riga di Freud o di Jung o di qualsiasi altro studioso della materia ma dice ugualmente la sua.
Per un certo periodo si era fissato a volere interpretare i sogni. Non i suoi, il che sarebbe stato un esercizio legittimo visto che ognuno con i propri sogni ci fa quello che vuole. Erano i sogni degli altri che lo interessavano perché soltanto andando a rimestare nell'inconscio altrui aveva la possibilità di stupire con le sue sentenze. Alla stregua di un chiromante che dopo avere dato un'occhiata a una mano preannuncia fortune o disastri. Gli amici ormai erano tutti sul chi vive e stavano sulla difensiva. Quando lui abbordava l'argomento era un generale fuggi fuggi. "Ma che vuoi che mi ricordi di quello che ho sognato!", "ieri sera ho mangiato una carbonara, ecco perché stanotte ho avuto gli incubi!". Erano questi gli ingloriosi esiti dei suoi tentativi di penetrare nel mondo nascosto dei pochi amici che non avevano preventivamente chiuso il discorso spostandolo per tempo su altre sponde.
L'impianto e i meccanismi della psicologia se li è ricostruiti da solo in una sorta di "fai da te" che gli fornisce però forti convinzioni. Si è messo in mano una specie di cubo di Rubik che con facilità riesce e a rigirare a occhi chiusi mettendo sempre tutti i quadratini colorati al posto giusto.
Dove dovrebbe starci la scienza lui ci ha messo l'intuizione, al posto dei riscontri oggettivi ha collocato un granitico "sono convinto che.." l'arma micidiale che consente a tutti di parlare di tutto. A volte compie delle brevi incursioni nel lessico della psicoanalisi e dintorni recuperando qualche termine, e talvolta qualche concetto, tratti da una trasmissione televisiva in cui un'avvenente conduttrice in minigonna e tacchi a spillo dialogava su temi di psicologia. "Professore, ci spieghi il motivo per cui.., in poche parole perché devo andare in pubblicità".
I suoi ferri del mestiere sono, tutto sommato, di discreta qualità. L'archetipo, il transfert, l'inconscio, l'Io e l'Es, le rimozioni e le sublimazioni, lui sa di che si tratta e li maneggia con una certa disinvoltura. Il problema è che maneggia questi strumenti di lavoro in maniera a dir poco impropria, come se utilizzasse il bisturi per tagliare a fette un cocomero.
Il suo parlare forbito e circostanziato induce spesso chi lo ascolta a lasciarsi catturare, tanto forte è in molte persone il bisogno di dare una spiegazione ai piccoli e ai grandi disagi del vivere quotidiano. "Ma tu pensi che ci siano ragioni profonde nella crisi del mio matrimonio?". Uno che non avesse la pretesa di godere di un qualche rapporto di vicinanza intellettuale con Freud risponderebbe "mia cara, come faccio a dirti, ti posso solo assicurare che tuo marito mi sembra un imbecille". Lui no. Forte dell'ispirazione che gli deriva dalla sua parentela con il creatore della psicanalisi, comincia a sviscerare a casaccio la vita di quella poveretta che, forse giunta all'ultima spiaggia, si offre al suo parere come si sarebbe affidata, più proficuamente forse, a qualche Posta del cuore.
Lui tira fuori di tutto prendendola da lontano, il rapporto con corpo, le prime esperienze, la maternità. Poi risale la corrente esplorando i territori dell'infanzia su su fino al distacco dal seno materno dove si ferma non essendo possibile andare più oltre senza invadere il territorio sconosciuto della vita prenatale. In genere, la poveretta si lascia prendere da questi discorsi cercando di ricordare cose cui non aveva mai attribuito importanza, anche lei filosofeggia su liti famigliari e ristrettezze economiche, fa un rapido sconfinamento nella sfera sessuale. Insomma ci prende gusto, finché la ferrea legge del buon senso la porta a chiedere "sì va bene, ma io, secondo te, mio marito lo devo lasciare o no?".
Quello che non deve stupire è che qualche volta il piccolo Freud faccia centro. Imbellettando l'ovvietà con gli orpelli formali della psicologia gli può capitare di dare una mano a chi non ha tempo, soldi e voglia di rivolgersi a qualcuno che un rapporto di parentela con Freud lo abbia effettivamente. Quando succede, per lui è come un balsamo. Tra sé e sé pensa "eh sì, dovevo proprio fare lo psicoterapeuta, altro che impiegarmi al Catasto!".