Niccolò Quaresima e le foto del piacere: “Traduco le mie pulsioni in immagini"
Artista poliedrico e trasgressivo, Niccolò Quaresima lavora con la fotografia sperimentando parimenti altri media, in una ricerca che si mostra estremamente ricca e varia. Il tema del corpo, reso in forme orgogliosamente erotiche e sensuali, è al centro della sua produzione in cui questo stesso tema assume ogni volta sfumature più sessuali o pornografiche, estetiche o pulsionali. Gli abbiamo chiesto di raccontarci dei suoi progetti, vecchi e nuovi, toccando tematiche attuali e scottanti.
Inizio chiedendoti di parlarci di un lavoro recente, Planet Agar Agar (2020), che mi intriga molto. Si tratta di un libro d’artista che ruota attorno all’esistenza di questo pianeta misterioso che rimane in qualche modo inaccessibile. Affermi che è come se questo si costruisse insieme allo spettatore, grazie a tutto il materiale che offri, quasi indizi della sua esistenza. Io lo definirei un oggetto fantasma. È un’opera che apprezzo molto perché riesce ad unire due cose apparentemente distanti: la narrazione e l’astrazione. Il risultato è eccentrico, ma al contempo rigidamente controllato, come dalla ricercatezza formale con cui curi l’aspetto estetico. Pensando a tutti quei grafici e quei numeri che servono a localizzare Agar Agar mi chiedo che ruolo ha la metodologia scientifica nei tuoi lavori. Qui, inoltre, nella tua ricerca hai usato un microscopio, strumento che hai impiegato già in passato per realizzare delle serie fotografiche.
Mi fa piacere iniziare parlando di Planet Agar Agar, un progetto cui sono molto affezionato e che è stato un ottimo strumento di ricerca personale. Apprezzo che tu definisca il pianeta come un oggetto fantasma, in quanto è una presenza–assenza all’interno del lavoro. È anche un pretesto per parlare di fotografia in generale senza il peso della teoria dell’arte e della semiotica.
Prese singolarmente, le immagini sono un racconto delle infinite possibilità del medium, dalle tecniche del passato a quelle contemporanee. Il nome del libro proviene dall’alga Agar Agar, utilizzata sia in cucina sia come base per le coltivazioni batteriologiche in laboratorio. Questo suo duplice aspetto, casalingo e scientifico, mi affascina come tutto quello che è sia quotidiano che tecnico. Questo lavoro prende forma durante il primo lockdown, quando gli strumenti casalinghi sono diventati gli unici accessibili.
Il viaggio verso la scoperta di Agar Agar diventa un escamotage per uscire dalle mura domestiche, guardando il cielo ma con lo sguardo rivolto in basso: il micro che narra del macro. La mia formazione scolastica, prima di quella artistica, è stata scientifica; il rigore e la metodologia della scienza mi hanno sempre attratto, e ritengo che quando applicati ai linguaggi artistici permettano di costruire riflessioni più affilate. In tutti i miei lavori, il processo è scientifico, soprattutto durante il concepimento di un’opera. Ipotesi–dimostrazione–tesi: così mi piace ragionare, e non sempre funziona, non sempre la dimostrazione sostiene l’idea iniziale. A prescindere dalla strumentazione scientifica che utilizzo, è vero che la fisica e l’ottica siano discipline che cerco di inserire il più possibile nelle mie opere, come si vede in Cage à image o in Riflessioni formali.
Hai pubblicato una fanzine M 0.3 (2019) e ora ti sei trasferito a Bruxelles, città dove il mondo dell’editoria è molto avanti. Abitualmente risiedi a Milano, città dove questo settore è decisamente più avanzato rispetto il resto dell’Italia. Se penso al mondo dei magazine a Milano mi viene in mente Kabul, mente qui Roma in primis penso chiaramente a NERO, testate online che hanno un taglio ricercato e internazionale. Com’è per te lavorare nel mondo dell’editoria indipendente?
La fanzine M 0.3 è in realtà un lavoro scolastico sviluppato all’interno del corso di Stefano Graziani, artista italiano che spesso lavora concependo immagini e il libro che le raccoglie in contemporanea. La fanzine nasce da un’esercitazione che John Baldessari diede ai suoi studenti nel 1970 per stimolarli a utilizzare il medium fotografico in maniera non convenzionale.
Essere un giovane artista che lavora anche nel sistema dell’editoria indipendente è complesso. Produrre libri d’artista è un’operazione costosa che di fatto non produce nessun guadagno, ma che sicuramente è fondamentale per un fotografo oggi. Ci sono moltissimi artisti, anche giovani, che autoproducono i propri libri, senza un editore, o a volte diventando editori di se stessi, come per esempio Self-Publish Be Happy di Bruno Ceschel, o Self-Pleasure Publishing di Jacopo Miliani.
A volte lavorare con un budget ristretto è limitante, a volte invece è una sfida stimolante, perché ti costringe a valutare ogni scelta in maniera coscienziosa e soprattutto ti fa soppesare più attentamente ogni immagine, parola o pagina aggiunta nel lavoro. La fotografia che nella maggioranza dei casi si concretizza in serie fotografiche ti costringe sempre ad affrontare il problema dell’editing, della scelta “cosa aggiungo? cosa tolgo?”. Non c’è modo migliore per rispondere a queste domande se non tramite la costruzione di un libro autoprodotto. Il self-publishing sta alla serie fotografica come Marie Kondo alla casa.
Ti chiedo di parlarci di un'altra tua opera, Cage à image (2019). Si tratta di un cubo che prevede un foro dove “spiare” immagini dalla forte carica sessuale, allucinate da una luce quasi psichedelica. Una scatola magica, ma anche scatola dei piaceri. Un’opera, dunque, che si pone fra voyeurismo e trasgressione. Penso che oggi siamo tutti un po’ molesti e irrispettosi dei segreti altrui, quindi spiare fa meno scandalo, è più tollerato dalla nuova morale. Eppure, questa cosa ci dice molto anche della fruizione artistica, sempre tesa a guardare qualcosa di più. Come si traduce questa pulsione scopica, come direbbe Freud, nei tuoi lavori?
Cage à Image è un’opera di cui sono molto soddisfatto. È stato il mio primo vero e proprio esperimento di costruzione di un oggetto per la fruizione delle immagini, ed è stata una sfida non semplice. Il lavoro, come giustamente hai notato, ruota attorno al concetto di voyeurismo. Il mio desiderio era quello di fare vivere al fruitore la sensazione che provo mentre scatto immagini pornografiche. Tutti noi siamo dei guardoni a modo nostro, basti pensare a quanto la cultura del porno sia diffusa e difesa. Tuttavia, se la pornografia appartiene alla nostra intimità e solitudine, come anche la masturbazione, l’atto di guardare immagini pornografiche all’interno di uno spazio culturale crea una sorta di cortocircuito. Così, riemergere quel senso di vergogna e imbarazzo che ormai non proviamo più così facilmente. Questo non ha origine dall’immagine, ma dalla sua fruizione, cioè dal guardare attraverso il buco della serratura, dentro un mondo magico ed erotico. Ma questo non è certo un argomento nuovo nel mondo dell’arte, basti pensare all’opera del 1968 di Giosetta Fioroni, La spia ottica – Ovvero la mia camera da letto.
Ho sempre guardato molti film porno, fin da adolescente, e la fotografia è una pratica intrinsecamente voyeuristica: in fondo, il fotografo è un guardone che prova piacere nell’osservare ciò che lo circonda, nascosto dal proprio strumento. Credo che non avrei potuto scegliere medium più adatto per conciliare questa pulsione scopica con la produzione artistica. Quello che cerco sempre di fare tuttavia è essere cauto nel tradurre le mie pulsioni in immagini. Nonostante la natura esplicita delle fotografie, ritengo che la costruzione formale delle stesse sia altrettanto importante. Dopotutto, quello che si dice è importante tanto quanto il modo in cui lo si dice.
About (2019) è un’opera dove il concetto di nudità è preponderante. Guardandola mi sorge un interrogativo: qual è il confine tra pornografia ed erotismo? Molti intellettuali hanno riflettuto su questo problema spinoso, come Roland Barthes e Susan Sontag, citando solo due nomi celebri. Qual è la tua opinione in proposito?
Ti rispondo con una frase che avevo scritto sul retro dell’invito alla mostra Pornomania: “Sesso, erotismo e amore sono congiunti, e tuttavia separati: i confini fra di essi sono mobili e la loro rappresentazione una zona liquida. Il sesso è animale, l’erotismo è post-moderno, l’amore è sublimazione. La pornografia è raffigurazione del piacere, l’orgasmo estetico del fotografo che fra dita, umori, cuoio e corde si innamora delle sue vittime.”
Il lavoro About è costruito proprio come un ragionamento sul corpo nudo. Il concetto di pornografia è, all’interno della società delle immagini, molto più ampio di un semplice video porno, quindi ci tengo a precisare subito che l’accezione del termine pornografia all’interno della serie è meramente quella di “immagini che mostrano sesso”.
La trilogia affronta il corpo in tre modi: Nudity, cioè il corpo nudo come volume geometrico, come oggetto volumetrico inserito nello spazio, assolutamente privo di sessualità. Erotism, cioè il corpo come oggetto del desiderio sessuale, il nudo che diventa strumento di eccitazione, e come tale velato rispetto al corpo in Nudity.
In Pornography, invece, il corpo diventa soggetto, partecipa attivamente alla danza erotica e il piacere diviene scambio tra soggetti ritratti, tra fotografo e soggetto, o attraverso la masturbazione. Io ritengo che la distanza tra erotismo e pornografia si nasconda nella differenza tra partecipazione passiva e partecipazione attiva. L’immagine erotica appartiene al gioco della seduzione, è lasciare che il proprio corpo divenga l’oggetto del desiderio dell’altro; la pornografia invece riguarda la danza del piacere: le immagini sono fatte di odori e rumori e raccontano lo scambio reciproco destinato all’orgasmo.
Nel 2018 hai esposto tre personali, Pornomania, About Erotism, Erotikami – A Night about Erotism. I titoli sono espliciti: tratti il tema della corporeità e sessualità in maniera audace, trasgressiva ed elegante. Ti chiedo come è evoluto il tuo modo di trattare queste questioni, e se c’è stata nella tua produzione un’esperienza particolarmente significativa in questo senso.
Queste tre mostre raccontano la parte finale del progetto About, i suoi ultimi due capitoli. In realtà si trattò piuttosto di eventi notturni (sono un animale della notte), pensati con piccoli giochi e forme di intrattenimento legati al mondo del sesso.
La musica, l’alcol, i gadget lubrificati e le fotografie erano pensate in sincronia: sono state tre notti liberatorie. Io ho iniziato a scattare foto di nudo sei anni fa, inizialmente in maniera molto innocente. Ci è voluto del tempo per formare un mio immaginario, ma soprattutto per sentirmi davvero a mio agio nel fotografare nudi o atti sessuali, ed è proprio per questo che mi piace presentare i lavori fotografici all’interno di un’atmosfera erotica: per veicolare fino in fondo il piacere che provo nel costruire un lavoro simile.
Fin da adolescente sono stato molto attivo sessualmente e il progetto About è stato anche un modo per fare i conti con questo aspetto. “Ah, sei il fotografo dei cazzi!”, mi è capitato di sentirmi dire, e la cosa mi rende felice! Non c’è nulla di male nell’immaginario pornografico, gli anni Settanta avrebbero dovuto sradicare tutte le limitazioni culturali. Eppure ancora oggi ci riesce difficile vivere serenamente la nostra sessualità. Se all’inizio About era uno strumento per studiare il corpo e ragionare sulle mie pulsioni, nell’arco dei tre anni di produzione è diventato un lavoro dedicato a tutti quelli che amano l’erotismo e il sesso e non vogliono vergognarsi del numero di partner che hanno.