In ricordo di Philippe Daverio
In silenzio, senza preavviso e con fare modesto (lui che non passava di certo inosservato), ci ha lasciato Philippe Daverio alla soglia dei settantuno anni.
Alsaziano di nascita e milanese di formazione (anzi lombardo), Daverio è stato un rinomato storico dell’arte “self-made”. È noto infatti come egli non avesse mai conseguito alcun titolo di laurea, pur avendo sostenuto tutti gli esami del corso di economia alla Bocconi di Milano. Non aveva certo bisogno di un pezzo di carta che attestasse la sua raffinatissima cultura, lui che era in grado di tenere una lectio magistralis sulla campagna di Napoleone in Italia e sulla pittura e la letteratura europea così come sul Campari e il prosciutto crudo. Si restava ammaliati e stupefatti ascoltando un suo intervento, perché era in grado di creare collegamenti impensabili, così che, arrivando in ritardo ad una sua serata a teatro, ci si sarebbe stupiti nel sentirlo parlare di tutt’altro rispetto al tema del titolo. Quel discorso però avrebbe trovato sicuramente una quadra e l’ascoltatore avrebbe visto il fil rouge tessuto dal critico.
Perché era così amato dal grande pubblico? Sicuramente uno dei suoi grandi pregi era la simpatia. Daverio risultava simpatico, a tutti. Sarà stato l’aspetto un po' buffo, il papillon e tutto il vestiario ottocentesco, gli occhiali tondi dalle montature colorate e tutte le sue fisime bizzarre (come quando agli incontri al teatro Carcano prima di iniziare metteva sul tavolo un vecchio orologio da taschino per misurare il tempo del suo intervento). La simpatia, per una persona che comunica un contenuto non sempre semplice, è una qualità fondamentale e piuttosto rara negli intellettuali. Ma la simpatia certamente non basta a farne un buon divulgatore; a questa dote innata (o forse sapientemente costruita) egli sapeva aggiungere una grande capacità di semplificare concetti difficili e renderli attuali.
Il suo lascito più grande, oltre ai numerosi libri (di un’erudizione piacevole e mai pedante), è certamente quel bellissimo programma televisivo che è stato Passepartout, da lui condotto con la regia di Mauro Raponi. Andato in onda su Rai3 per tutto il primo decennio degli anni Duemila, il programma è diventato un cult della tv italiana. Ogni puntata, della durata di 25 minuti circa, ha un tema artistico (in parte legato ad una mostra allora in corso in Italia), ed è caratterizzata da uno stile spesso irriverente, ironico e antiaccademico. La sigla è già un capolavoro: si tratta del componimento “In The Hall Of The Mountain King” di Edvard Grieg, mischiato come un vero e proprio medley ad altri brani musicali, tutti suonati insieme a ritmi opposti. Le inquadrature singolari che mostrano primissimi piani di Daverio e gli incipit memorabili contraddistinguono infine il format, rendendolo un unicum per la divulgazione italiana. Oggi, a distanza di un ventennio dalle prime puntate, questo programma non è invecchiato minimamente, o meglio, è invecchiato splendidamente.
Ricordi di un affezionato daveriano:
Ricordo quelle domeniche da bambino in cui capivo che era ora di pranzo quando risuonava per la casa quell'allegro motivetto.
Un buffo e simpatico ometto mi incuriosiva, con quel vestiario singolare, le inquadrature e gli incipit improbabili...
Non capivo le cose di cui parlava, ma ne ero affascinato e divertito. Ogni domenica era scandita da quel motivetto e da quel personaggio, e lentamente si sedimentava in me un interesse.
Passepartout è stato per me uno dei programmi più belli della televisione pubblica italiana, un programma leggero, divertente e arguto, come il suo conduttore, non un tecnico, non un professore, ma un intellettuale, un uomo coltissimo, ultimo strascico di un mondo ottocentesco che pur non avendo vissuto rappresentava ancora in minima parte.
Il passepartout è una chiave che apre tutte le porte, per lui quella chiave era la cultura, e ci credeva davvero in quella frase (abusatissima) dello scrittore russo ("la bellezza salverà il mondo").
Grazie Philippe, insegna agli angeli a vestirsi