L'amore impalpabile dei film di Kim Ki-duk
L’11 dicembre 2020 scompare per complicazioni dovute al Covid-19 uno dei registi sud coreani più noti e apprezzati, ma anche controversi, del cinema contemporaneo. Esponente di una tendenza lirica e “orientale”, la sua poetica ha influenzato numerosi colleghi e giovani registi che si sono inseriti nel solco di questa ricerca sospesa fra sublimazione e desublimazione, bellezza e squallore.
Legato all’Italia da uno strettissimo rapporto, intessuto e approfondito dalle abituali partecipazioni al Festival del Cinema di Venezia dove ottiene numerosi premi e riconoscimenti, Kim Ki-duk è una figura obliqua e ostica, come il suo cinema, che nell’evoluzione che ha subito nei lunghi anni della sua prolifica carriera ha mantenuto immutate queste caratteristiche. Basti pensare agli esordi, con film spigolosi come Crocodile (1996) e Paran daemun (Birdcage inn) (1998), dove mette le basi per una ricerca poetica votata a un’immagine scarna e disinibita, paradigma di un realismo anti-magico ma straordinariamente lirico, che fa tutt’uno con la nerezza delle sceneggiature, anch’esse minimali, fatte di brutalità e violenza. Nel primo film, infatti, vediamo le vicende di un giovane senzatetto (un “coccodrillo”) che si apposta sotto un ponte detto dei suicidi per spogliare i cadaveri dei loro averi, altrimenti divorati dal fiume, mentre nella seconda pellicola il tema della prostituzione è trattato in maniera largamente degradante, con stile freddo e documentario, non offrendo anche qui nessuna forma di catarsi. Questa estetica, che prosegue in film che esplorano una sfumatura “cult”, come Real Fiction (2000) e Bad Guy (2001), si muove dalla provincia alla città mostrando squarci di miseria e disagio giovanile che evocano alla mente l’universo narrativo del giapponese Ryū Murakami, che con il romanzo Blu quasi trasparente ha segnato una generazione.
Con l’Isola (2000) l’elemento poetico prevale, anche se si tratta di una poesia arcana e terrena, lontana da un certo “poetico” posticcio e artificioso che siamo abituati a riscontrare in alcune pellicole pseudo-orientali. Il film, senza discostarsi da un certo squallore di fondo e un culto quasi morboso per il degrado fisico e spirituale, riesce a viaggiare in territori onirici e sospesi, mostrando la storia di un assassino che fugge dalla polizia per trovare rifugio in uno strano stabilimento costruito su palafitte, che un affascinante donna gestisce per affittare ai pescatori. La donna abitante questo spazio atemporale, cancellato dalla nebbia e perso nel nulla di una landa desolata, è una strega ma anche una figura arcaica e materna, come certe divinità pagane. L’immagine, poetica e leggermente torbida come la superficie del lago dove si innalzano queste costruzioni effimere, qui è al culmine della sua bellezza. Proprio in merito al rapporto del regista con l’immagine lo studioso Riccardo Panattoni dedica al cineasta il testo Kim Ki-duk: sei immagini (Orthotes, 2020), che esplora questa dimensione sia pittorica che temporale a partire dai riferimenti teorici di Deleuze e Barthes.
Il suo cinema, come risulta evidente in questa pellicola, è fatto di silenzi; ma non è mai completamente muto, e si pone in un panorama contemporaneo dove la logorrea si accompagna alla retorica. In un simile contesto, questo silenzio assoluto, divorante il chiasso delle parole inutili che oggi si sprecano, è un qualcosa di infinitamente apprezzabile. Come commentare, infatti, l’operazione compiuta con il furbissimo Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera (2003), film iconico e simbolico per molti versi, grazie alla tematica spiritualista e new-age del ritiro spirituale, che invece che insistere con i topos di questo immaginario lavora contro di essi, li svuota per rivelarsi alla fine della visione come una scorza vuota.
La ricerca formale di Kim Ki-duk non si ferma con la maturità e la notorietà, e diviene sempre più radicale. Un esperimento di un estetismo esasperato è Pietà, lavoro monumentale come lo è la scultura di Michelangelo a cui si ispira, materiale marmoreo e purissimo per scolpire una trama fatta di redenzione (effimera) e vendetta. Moebius, invece, è più una boutade: una storia di incesto dove a prevalere sembrano le vicende tragicomiche di un pene amputato che viaggia da padre a figlio, tagliato e ricucito alla buona, in una tribolazione al limite del parossismo. Dream e Arirang sono due film uniti da un incidente: quello dell’attrice protagonista del primo che durante le riprese rischia di perdere la vita. Quest’irruzione brusca della “realtà” permette al regista di fare del secondo film, la sua opera più sperimentale, una sorta di testamento meta-cinematografico. Questo perché il regista, uscito provato da questa vicenda, fra il 2017 e il 2018 finisce immischiato in una (presunta) storia di violenza che lo inserisce fra i carnefici del #MeToo. In un certo senso la sua carriera poteva già dirsi compiuta, anche se forse ci si sarebbe potuti aspettare ancora una metamorfosi, una rinascita, da quel testamento che non aveva nulla di definitivo.
Tornando indietro nel percorso cronologico della sua carriera, è con Ferro 3 (2003), il suo “capolavoro”, che vogliamo terminare questo omaggio. Il film riassume al meglio l’essenza lirica della sua ricerca: è la storia di un amore impalpabile, etereo, senza peso. Il protagonista di questa storia sospesa è un nomade che abita case lasciate vuote per viaggi di lavoro o vacanze, e che si innamora di una donna infelice che sfiora in una di queste permanenze. Come in un altro suo bellissimo film, Soffio (2007), qui tutto resta aereo, proprio come nella scena finale che resta inscritta nelle mente di chiunque conosca la pellicola. L’insediarsi in ambienti domestici che vengono continuamente abbandonati a favore di altri diviene come una metafora di un cinema che si muove discreto, e che in questa discrezione trova una sorta di invisibilità. Questa modalità di lavoro mi fa venire in mente quello Deleuze scrive su Kafka, a cui dedica un importante saggio (Gilles Deleuze, Kafka, Kafka. Pour une littérature mineure, Éditions de Minuit, Paris, 1975), dove parla di un linguaggio “minore”, fatto a forza di essere disfatto per uscire dalla pastoie delle grandi narrazioni. Si tratta di un modo alternativo di intendere una migrazione continua, di significati e registri formali, che diventa pratica di disidentità, disidentificazione in divenire. Questo migrare dell’immagine verso nuovi lidi, nuovi spazi effimeri e invisibili, per ri-abitare spazi dimenticati e darne visione, in Kim Ki-duk diviene un modo per riscoprire la logica segreta delle cose più infime e impalpabili dell’esistenza.
Un altro commentatore di Kafka, Haruki Murakami, in Kafka sulla spiaggia descrive così il procedimento della sua scrittura.
Kafka, più che dare delle spiegazioni sullo stato in cui ci troviamo a vivere, preferisce spiegare in modo puro e meccanico quella macchina complicata. (…) Così facendo lui riesce a spiegare chiaramente, meglio di chiunque altro, la condizione in cui tutti ci troviamo. E lo fa senza parlarne direttamente, ma descrivendo nei minimi particolari il funzionamento della macchina.
Kim Ki-duk, nella sua ricerca “minore” e dimessa, ha reso con il suo cinema un’immagine della realtà fredda e impalabile, torbida e cristallina al contempo, che l’ha reso un outsider critico e controverso, una figura quasi-trasparente ma che non sarà mai completamene-invisibile, fortunatamente per noi.