Mettere in scena l'assenza: “Le sedie” di Ionesco al Vascello
Una stanza in un faro alla fine del mondo; tre pareti scrostate, una catasta vertiginosa di sedie, una grande finestra che inquadra il nulla. Entrano i protagonisti, un Vecchio e una Vecchia. Il Vecchio guarda di fuori, cerca di scorgere le barche sull’acqua; le loro chiazze di colore nella luce del sole lo mettono di buon umore. La Vecchia lo richiama. Inutile sforzarsi. Il sole non c’è. Fuori è buio.
Così inizia, col primo di una lunga serie di dialoghi illogici e inconcludenti, Le sedie di Eugene Ionesco, “farsa tragica” riadattata e diretta da Valerio Binasco, dall’1 al 6 marzo 2022 in scena al Teatro Vascello di Roma.
La pièce fu presentata per la prima volta al pubblico il 22 aprile del 1952 al Théatre Lancry di Parigi; quella Parigi dove, esattamente nello stesso anno, Samuel Beckett dava alle stampe il suo celebre En attendant Godot. Come il capolavoro del drammaturgo irlandese, anche l’opera di Ionesco è interamente costruita intorno a un’assenza assordante. Ma non l’assenza di un personaggio. L’assenza dell’intera umanità. Le sedie del titolo sono infatti destinate a rimanere vuote, a farsi simbolo molteplice di una presenza che, sebbene continuamente suggerita dal delirio allucinatorio dei due protagonisti, non si concretizza mai agli occhi dello spettatore.
Michele di Mauro e Federica Fracassi con le loro prove attoriali danno vita a un Vecchio e a una Vecchia di vertiginosa sostanza umana, grazie soprattutto a un affiatamento tangibilissimo che riesce a valorizzare al meglio il taglio intimo e tenero che Binasco ha voluto dare al dramma di Ionesco, sfrondato per l’occasione dell’elemento più strettamente critico verso la politica e la società francesi degli anni ‘50, molto importante nell’originale. Nell’inquietante vuoto pneumatico popolato da invisibili ectoplasmi, i due anziani protagonisti sono vividamente presenti con la loro inquietante e difettosa corporeità e con il loro scompostissimo, disfunzionale ma solido amore. Un amore perso nello spazio (dove si trovano? C’è ancora un mondo oltre a loro? A un tratto si evoca Parigi, ma sembra ormai distrutta) e dilatato a dismisura nel tempo: “stiamo insieme da un secolo e mezzo” dichiara a un certo punto il Vecchio a Semiramide, il nome con cui chiama la sua compagna di vita, amante, amica, madre. Perché non c’è nessun altro, oltre a lei.
Il Vecchio e la Vecchia parlano del loro passato, dei loro sensi di colpa e dei loro rimpianti, di quello che sarebbero potuti essere e non sono stati (il Vecchio è un “maresciallo d’alloggio”, ma secondo la moglie aveva la potenzialità per fare il “maresciallo capo”, ah se solo non gli fosse mancata l’ambizione!). Tra un’incomprensione e l’altra, si preparano a ricevere nella loro casa una miriade di ospiti, venuti a sentire parlare “un Oratore professionista”. La porta si apre più volte, i protagonisti accolgono e intrattengono personaggi che noi non vediamo e non sentiamo. Il palco si riempie di sedie, tirate giù dalla catasta per farli accomodare, ma tutte rimangono irrimediabilmente vuote. Lo spettatore ha l’impressione di assistere a un vero e proprio delirio, un delirio così concreto che a un certo punto i due si smarriscono addirittura tra la folla invisibile. La Vecchia, precipitata nel panico, deve arrampicarsi sulla catasta delle sedie per farsi scorgere dal marito; i due si ritrovano, pur non essendosi mai davvero persi.
Quando tutti (non) sono arrivati e tutte le sedie sono a loro posto, ecco che viene annunciato l’arrivo dell’Oratore, venuto a dare il suo messaggio di speranza all’umanità. Una luce inizia il suo percorso dalla porta, attraversa la stanza, sfonda la quarta parete, striscia sui muri della sala del teatro, poi si accende più forte sul pubblico.
Ma allora, per tutto questo tempo, qualcuno c’era davvero. È il proclama della presenza, che rompe la solitudine apparentemente insanabile dei personaggi, insieme alla stessa finzione teatrale. È qui che il dramma di Binasco si allontana più fortemente dal testo di Ionesco, con un colpo di scena che risolve la dicotomia assenza/presenza in modo estremamente diverso, dettato probabilmente dal desiderio di un più aggiornato aggancio alla contemporaneità, una contemporaneità in cui il dramma della pandemia ha calato davvero l’assenza in tutti i teatri del mondo, privandoli improvvisamente del pubblico.
Il Vecchio e la Vecchia, dopo aver espresso tutta la loro gratitudine, si possono finalmente accomiatare. Attraversano la stanza, si arrampicano sul davanzale dalla finestra, si prendono per mano e si gettano di sotto insieme, in un ultimo atto di amore.
Trovano dunque la morte? Forse, ma solo se quella di prima era davvero vita e non, come invece sembra suggerirci il regista, un’assurda, delirante, finzione teatrale.