Leonardo Crudi e i suoi manifesti delle attrazioni

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Il paesaggio urbano contemporaneo, quello della città postmoderna, si presenta come un frammentario caleidoscopio di immagini. La città è rivestita di immagini, che bombardano costantemente il nostro occhio. Si tratta principalmente di pubblicità, chilometrici tappeti di carta che tappezzano le strade; sono poster di partiti politici, di mostre, di spettacoli teatrali e film, e soprattutto manifesti pubblicitari.

Il manifesto come oggetto cartaceo di diffusione di immagini o informazione ha origini antiche, come testimonia la colonna ercolanense trovata nel 1897, ricoperta di manifesti scritti su papiro. Ma il manifesto come lo intendiamo oggi vede l’origine nel secondo Ottocento, in quella Francia della Terza Repubblica, e in particolare nella Parigi che stava mutando radicalmente con i grandi piani urbanistici di Haussmann. Nei grandi boulevards che venivano aperti erano affissi manifesti di spettacoli, di caffè, di libri e concerti, spesso disegnati da artisti come Toulouse-Lautrec, Bonnard, Vuillard…

Le strade diventavano così luogo di esposizione di questa nuova forma d’arte, che si sottopone ai passanti violentemente. Caratteristica del manifesto è proprio la sua violenza; non una violenza legata ai contenuti trasmessi, ma inerente proprio al suo metodo di trasmissione. Un manifesto non si guarda, si vede. Camminando per strada il nostro occhio si imbatte involontariamente in queste immagini, captandole ed inviandole al cervello. Il nostro patrimonio visivo si satura allora di immagini, che vediamo distrattamente in pochi istanti e che hanno vita breve nella nostra memoria. Il manifesto stesso ha una vita piuttosto breve; essendo fatto di carta è destinato ad ingiallire e a deteriorarsi sotto la pioggia e agli altri agenti atmosferici, oltre ad essere in balia della città e quindi soggetto ad essere rovinato, ricoperto o addirittura staccato. Il poster ha quindi di per sé una natura effimera. La città muta così la propria veste in continuazione, come un serpente che cambia la pelle, rinnovandosi e rispecchiando il periodo storico corrente. I muri delle strade diventano un grande spazio espositivo per mostrare immagini e veicolare messaggi, senza passare per alcun tipo di filtro o di censura, ed uscendo dagli spazi angusti ed elitari delle gallerie.


Il manifesto come oggetto cartaceo di diffusione di immagini o informazione ha origini antiche, come testimonia la colonna ercolanense trovata nel 1897, ricoperta di manifesti scritti su papiro. Ma il manifesto come lo intendiamo oggi vede l’origine nel secondo Ottocento, in quella Francia della Terza Repubblica, e in particolare nella Parigi che stava mutando radicalmente con i grandi piani urbanistici di Haussmann. Nei grandi boulevards che venivano aperti erano affissi manifesti di spettacoli, di caffè, di libri e concerti, spesso disegnati da artisti come Toulouse-Lautrec, Bonnard, Vuillard…

Le strade diventavano così luogo di esposizione di questa nuova forma d’arte, che si sottopone ai passanti violentemente. Caratteristica del manifesto è proprio la sua violenza; non una violenza legata ai contenuti trasmessi, ma inerente proprio al suo metodo di trasmissione. Un manifesto non si guarda, si vede. Camminando per strada il nostro occhio si imbatte involontariamente in queste immagini, captandole ed inviandole al cervello. Il nostro patrimonio visivo si satura allora di immagini, che vediamo distrattamente in pochi istanti e che hanno vita breve nella nostra memoria. Il manifesto stesso ha una vita piuttosto breve; essendo fatto di carta è destinato ad ingiallire e a deteriorarsi sotto la pioggia e agli altri agenti atmosferici, oltre ad essere in balia della città e quindi soggetto ad essere rovinato, ricoperto o addirittura staccato. Il poster ha quindi di per sé una natura effimera. La città muta così la propria veste in continuazione, come un serpente che cambia la pelle, rinnovandosi e rispecchiando il periodo storico corrente. I muri delle strade diventano un grande spazio espositivo per mostrare immagini e veicolare messaggi, senza passare per alcun tipo di filtro o di censura, ed uscendo dagli spazi angusti ed elitari delle gallerie.

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Leonardo Crudi ha scelto la strada come luogo di esposizione dei suoi lavori, fin da quando a tredici anni si è immerso nel mondo dei graffiti, girando la città alla rincorsa degli altri writers. Dai muri con le tag e le bombolette è passato alla carta, alla penna e alla colla, ma soprattutto ha mutato il contenuto e la finalità delle sue opere. I suoi manifesti però non possono essere visti distrattamente, vanno guardati con più attenzione, per provare a ricostruire mentalmente quelle forme scomposte, e cercare di decifrare quei personaggi e quei caratteri sconosciuti. Questi poster sembrano fuoriuscire dagli anni Dieci e Venti del Novecento, direttamente dalle mani di Malevič o di Rodčenko. La scelta dell’estetica sovietica non è stata immediata, ma è arrivata lentamente dopo un lungo percorso di ricerca artistica. Nasce tutto dal cinema: Crudi è un grande ammiratore del mezzo cinematografico in ogni sua forma.

Partendo dal neorealismo italiano, corrente cinematografica che porta sullo schermo le classi proletarie, utilizzando spesso attori non professionisti, Crudi scopre poi il cinema sperimentale, cominciando da registi come Claudio Caligari. Sebbene oggi i suoi (pochi) film siano dei cult, il regista piemontese ha iniziato ad affacciarsi alla cinematografia in maniera indipendente e con un approccio più documentaristico, tramite una serie di cortometraggi incentrati su tematiche sociali.

Dopo varie sperimentazioni è approdato al grande schermo nel 1983 con “Amore tossico”, film che tratta dell’abuso di eroina, in quegli anni ai massimi storici, tra Ostia e la periferia romana. Con un’operazione molto simile a quella neorealista, Caligari sceglie attori presi dalla strada, dei veri tossicodipendenti appena usciti dalla riabilitazione, raccontando la borgata post-pasoliniana con grande crudezza e credibilità. Un poster di Leonardo rende omaggio a questo regista: sopra ad una rete metallica bucata si stagliano i volti di due dei protagonisti del racconto, Cesare e Michela, mentre dei corpi giacciono a terra esamini, come trafitti dalla grande “spada” sovrapposta. Due mani recano un limone e una siringa, strumenti utilizzati per le iniezioni. Limoni che ironicamente tornano anche nei capelli della donna e nell’orecchino, come ornamento decorativo. Ci vorranno altri quindici anni per la seconda pellicola di Caligari (L’odore della notte, 1998), e addirittura diciotto per l’ultima (Non essere cattivo, 2015), entrambe raffigurate in un poster da Leonardo, per rendergli omaggio poco dopo la sua scomparsa.

Leonardo Crudi ha scelto la strada come luogo di esposizione dei suoi lavori, fin da quando a tredici anni si è immerso nel mondo dei graffiti, girando la città alla rincorsa degli altri writers. Dai muri con le tag e le bombolette è passato alla carta, alla penna e alla colla, ma soprattutto ha mutato il contenuto e la finalità delle sue opere. I suoi manifesti però non possono essere visti distrattamente, vanno guardati con più attenzione, per provare a ricostruire mentalmente quelle forme scomposte, e cercare di decifrare quei personaggi e quei caratteri sconosciuti. Questi poster sembrano fuoriuscire dagli anni Dieci e Venti del Novecento, direttamente dalle mani di Malevič o di Rodčenko. La scelta dell’estetica sovietica non è stata immediata, ma è arrivata lentamente dopo un lungo percorso di ricerca artistica. Nasce tutto dal cinema: Crudi è un grande ammiratore del mezzo cinematografico in ogni sua forma.

Partendo dal neorealismo italiano, corrente cinematografica che porta sullo schermo le classi proletarie, utilizzando spesso attori non professionisti, Crudi scopre poi il cinema sperimentale, cominciando da registi come Claudio Caligari. Sebbene oggi i suoi (pochi) film siano dei cult, il regista piemontese ha iniziato ad affacciarsi alla cinematografia in maniera indipendente e con un approccio più documentaristico, tramite una serie di cortometraggi incentrati su tematiche sociali.

Dopo varie sperimentazioni è approdato al grande schermo nel 1983 con “Amore tossico”, film che tratta dell’abuso di eroina, in quegli anni ai massimi storici, tra Ostia e la periferia romana. Con un’operazione molto simile a quella neorealista, Caligari sceglie attori presi dalla strada, dei veri tossicodipendenti appena usciti dalla riabilitazione, raccontando la borgata post-pasoliniana con grande crudezza e credibilità. Un poster di Leonardo rende omaggio a questo regista: sopra ad una rete metallica bucata si stagliano i volti di due dei protagonisti del racconto, Cesare e Michela, mentre dei corpi giacciono a terra esamini, come trafitti dalla grande “spada” sovrapposta. Due mani recano un limone e una siringa, strumenti utilizzati per le iniezioni. Limoni che ironicamente tornano anche nei capelli della donna e nell’orecchino, come ornamento decorativo. Ci vorranno altri quindici anni per la seconda pellicola di Caligari (L’odore della notte, 1998), e addirittura diciotto per l’ultima (Non essere cattivo, 2015), entrambe raffigurate in un poster da Leonardo, per rendergli omaggio poco dopo la sua scomparsa.

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La ricerca di Crudi prosegue, e lo porta a scoprire Carmelo Bene, figura discussa e controversa, singolarissimo e complesso (non) attore, che ha avuto anche una parentesi in quella che egli definiva la “pattumiera di tutte le arti”, ovvero il cinema. A lui dedica due poster, uno sul suo primo cortometraggio “Hermitage” (1968), e l’altro su “Un Amleto di meno” (1972), crasi fra la versione shakespeariana e quella di Laforgue dell’Amleto.

Ma oltre a questi nomi piuttosto noti, seppur non al grande pubblico, Crudi scava nella storia del cinema alla ricerca dei film e documentari più sconosciuti, addirittura privi della locandina pubblicitaria perché proiettati unicamente nei cinema d’essai. Decide allora di dare un’immagine a questi film, disegnando loro una locandina. Così ha fatto per “Il fitto dei padroni non lo paghiamo più” e per “E noi che siamo la forza del mondo”, entrambi realizzati dal collettivo Videobase formato da Lajolo, Leonardi e Lombardi.

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In questa accurata e capillare ricerca a ritroso nel tempo, arriva finalmente la scoperta del cinema sovietico: Ejzenstejn e il montaggio delle attrazioni, Vertov con il Kinoglaz, e ancora Kulesov e Pudovkin. L’avanguardia cinematografica russa affonda le sue radici nel cinema futurista italiano, superando però quella visione estetizzante, quel “capriccio” Marinettiano, verso un’arte che incarni gli ideali della Rivoluzione. Il cinema è l’arte popolare per antonomasia, e nella Russia post-zarista sollevò grande entusiasmo grazie alla sua forza di propaganda e penetrazione tra le masse analfabete. In quegli anni le macchine e gli automi esercitavano una grande fascinazione che investì tutte le arti: dalle forme geometriche dipinte da Malevic ai progetti di Tatlin, passando per il teatro “biomeccanico” di Mejerchol’d e per il cinema stesso. L’idea di fondo del cinema sovietico è che il montaggio possa essere la base estetica del film. Sergej Ejzenstejn è stato uno dei principali teorici del montaggio; rifiutando il cinema di narrazione tradizionale, mira a scuotere e a shockare lo spettatore, a colpirlo con il cosiddetto cine-pugno, una raffica di immagini e primi piani montati ad un ritmo serratissimo. Nel manifesto di Crudi che ha per soggetto Ejzenstejn, il regista ha una sorta di scarabocchio in testa, un segno grafico centrifugo, come quando i personaggi nei cartoni animati vengono colpiti in testa e vedono le stelle. È bastata un’immagine per descrivere un concetto complicato per il quale andrebbero spesso molte parole.

Esemplare ed immediato è anche il manifesto che omaggia Dziga Vertov e la sua teoria del Cine-occhio. Il regista si fa occhio meccanico, e come tale ha il compito di documentare la realtà senza alcun tipo di storia o narrazione. Ne “L’uomo con la macchina da presa” il cineoperatore vaga per le strade di Mosca, filmando e venendo filmato, innescando per la prima volta un meccanismo di meta-cinema. La macchina da presa diventerà infine autonoma, muovendosi da sola sul treppiedi e frantumandosi per mezzo di un effetto ottico. Con lo straordinario tratto verticale che lo contraddistingue, quasi fosse il tratteggio brandiano, Crudi ci mostra il Kinoglaz in un’immagine.

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Potremmo definire i lavori di Crudi come “manifesti delle attrazioni”, perché con una forte violenza visiva ci urtano nel nostro vagare passivo per la città, ci colpiscono come il cine-pugno, suscitando nuove emozioni e soprattutto nuovi stimoli, urlandoci contro per risvegliarci dal torpore intellettuale che ci affligge. D’altronde, nella sua visione (e in quella degli artisti d’avanguardia), un artista deve impegnarsi attivamente per la trasformazione della società contemporanea.