L’universo ironico e iconico di Elliot Erwitt in Icons
Quando l’universo mette insieme talento e fortuna, nasce Elliott Erwitt.
Ospitata al Wegil, prorogata fino al 12 Luglio e curata da Biba Giacchetti, che con il fotografo ha instaurato un personale dialogo, Elliott Erwitt Icons trasporta in un universo fatto di icone e ironia, tutto sotto la direzione delle misure anti-covid. Disposte ordinatamente su pannelli monocolore, ruggine e antracite, le fotografie sono presentate in cornici nere dotate di cornice bianca interna passe-par-tout, scelte espositive esemplari che permettono agli scatti di risaltare in tutta la loro unicità.
Il percorso non è obbligato, ma si percepisce la necessità di partire da destra, dove si ammirano divertiti scatti per un servizio di moda sulle calzature femminili per il New York Times: “Ho ripreso la scena dal loro punto di vista: se ci pensi nessuno vede più scarpe di un cane” dichiara lo stesso fotografo. Felix, Gladys and Rover è la prima dimostrazione della geniale ironia di Erwitt: andare al di là della comune visione dell’occhio, quasi come la macchina fotografica aprisse lo sguardo su un diverso modo di percepire la realtà. Così graziosi e allegri canetti si dimostrano protagonisti mordenti, ma anche assolutamente inconsapevoli, di una campagna pubblicitaria della New York degli anni Settanta, e della storia della fotografia.
Erwitt fotograferà molti altri cani, non solo negli Usa, ma anche in Europa, donandogli un posto d’onore tra le sue opere più famose.
Amico di Robert Capa e Henri-Cartier Bresson, nel 1953 viene invitato ad entrare a far parte dell’agenzia Magnum, di cui è direttore per tre anni. Erwitt sembra possedere la protezione divina: percorre la strada della sua vita sotto l’occhio vigile del destino, che lo porta a trovarsi sempre al tanto agognato posto giusto al momento giusto. Come afferma egli stesso “la fotografia è il momento, la sintesi di una situazione, l’istante in cui tutto combacia. È l’ideale fuggevole”.
Così gira il mondo riportando immagini che diventeranno pietre miliari dell’arte della scrittura con la luce, omaggiando e precorrendo, inconsapevolmente, colleghi illustri: il contrasto prepotente del sorridente bambino afroamericano che si punta una pistola alla tempia, scatto del 1950 che sarà tra i favoriti di Erwitt, riporta alla mente quello stesso stridente disturbo che nel 1962 accompagna Child with a toy hand grenade di Diane Arbus.
E l’uomo che nel 1982 salta una pozza d’acqua durante un giorno di pioggia, non ricorda forse una celebre visione di Bresson del 1932? Il sentiero della grandezza, che il fato dispensa per pochi, è forse costellato da immagini simili, come a confermare di trovarsi su una strada il cui traguardo è una imperitura memoria.
Così dagli Usa al vecchio continente, il rullino di Erwitt si riempie di figure celebri e incredibilmente emblematiche del loro paese di appartenenza: le ragazze che passeggiano in abiti tradizionali accanto ad un gruppo di oche in Ungheria nel 1964, il gruppo di fruitori maschili di fronte alla Maja desnuda di Francisco Goya al museo del Prado di Madrid in Spagna accanto all’unica donna che ne ammira la versione vestida nel 1955, o il bambino con baschetto e baguette in bicicletta col nonno nella Francia del 1955.
Molto diversi, per figura e ideali, sono anche i leader politici che il fotografo ritrae. In particolare due personaggi, due immaginari totalmente all’opposto, due pezzi di storia americana ad un solo anno di distanza: Kennedy, Los Angeles, 1960, e Nixon, Mosca, 1959. La foto del 37esimo presidente americano, figlia della fortunata casualità che caratterizza la vita di Erwitt, crea all’artista un disguido morale, diventa mezzo politico involontario, figura utile per la campagna dell’americano contro il russo Krusciov. “In realtà non era così”, si risentì il fotografo, “Nixon non stava affatto dominando la scena, e fui molto contrariato quando questa immagine venne usata senza il mio consenso per appoggiare la campagna elettorale di Nixon. Per fortuna in quella campagna non vinse!”.
Quindi il nome, Icons, è per le caratteristiche visioni europee e per le figure politiche? Direi di no, o meglio, non solo. Il titolo della mostra si fa aggancio immediato, preponderante collegamento con la figurina da manuale della definizione stessa di icona: Marilyn Monroe. Amica di Erwitt, la Monroe posa per lui lasciando cadere quella maschera da diva del cinema che la inquadra in quel luccicante palcoscenico perenne che è Hollywood. Marilyn si lascia ritrarre nel suo essere semplicemente una donna, bellissima certo, ma emozionale, fragile, morbida, un tentare di spogliarsi da ogni trucco, di liberarsi da quella imago di cui rimarrà autrice e vittima: “Letteralmente flirtava con la macchina fotografica. [...] sapeva esattamente cosa avrebbe ottenuto. [...] Era praticamente impossibile non farle una buona fotografia”, rivela Erwitt. Icona sì, ma di se stessa.
La pellicola di Erwitt scrittura altri volti noti del cinema, così scorgiamo un’eterea Grace Kelly, una Marlene Dietrich di evocazione felliniana e una foto sul set di The Misfits del 1960: “[...] Una foto di gruppo, eppure non è una foto di gruppo. Ogni espressione, ogni posa rende assolutamente l’individualità di ciascuno” dirà l’artista.
Una parte della mostra è dedicata agli autoritratti del fotografo, che si riprende lungo l’arco della sua vita, in modalità diverse, catturando le differenti sfaccettature di un uomo dalle più disparate anime e vedute.
Una mostra eterogenea dunque, dove si entra per vedere la celeberrima coppia che si bacia al tramonto mostrata nello specchietto retrovisore dell’auto in cui si trovano, foto di cui Erwitt stesso si dimenticherà e riscoprirà diventando quasi la sua firma, e si esce con gli occhi pieni di inaspettata bellezza: quella spiaggia degli East Hamptons dove la coda di Sammy sbuca da sotto la sabbia sullo sfondo di un nuvoloso cielo marittimo.