Di ferro e di vapore. Una storia americana
Nel III secolo Avanti Cristo, Qin Shi Huang, il Primo Augusto Imperatore della Cina, lo stesso che volle per sè un esercito di terracotta, ordinò che una cinta di terra e pietra, mattoni e fango dovesse avvolgere l'intero regno come un collo in macramè.
Non meno vasta di quella fu l'impresa che molti secoli dopo comandò Abraham Lincoln: la First Transcontinental Railroad avrebbe unito l'Atlantico al Pacifico, cicatrice metaforica che solcava il Missouri, la California, lo Utah, il Wyoming, il Nebraska.
Opposta dunque alla Grande Muraglia Cinese era la Grande Ferrovia Americana che doveva congiungere l'est all'ovest e che ora traccia ennesime rotte, ridisegna confini e fa nascere su quegli orli di terra e ferro battuto nuovi Stati federati. Così mentre il cinese chiude a doppia mandata il suo regno, l'americano ferra le strade dell'Oregon e del Nevada, attraversa le Montagne Rocciose e il Gran Lago Salato, lungo le vie dei mormoni dove adesso si avvicendano le fatiche di neri e irlandesi, immigrati cinesi dalle schiene madide di sudore ed antracite, polacchi e italiani con in bocca e fin sù le narici l'odore della polvere della mina.
Miglio dopo miglio l'America cuce le sponde della sua nazione e gli operai, che al tramonto paiono figurine di cartapesta, già sognano i vaudeville di New York e Parigi. Alla controra il tamburino nero intona il suo blues con scatole di soup beans e chitarre di latta, mentre i francesi all'ombra di una roccia giocano a rimpiattino con tappi di cera e guardando le traversine e le rotaie cantano pure loro:
En un jour, par cette machine
Mangeant sa glace au Kamtchatka,
L'on prendra son the dans la Chine
Et sa demi-tasse à Moka[1]
E più giù ancora, chiuso nella sua garitta, Forster l'irlandese, fulvo come un diavolo cornuto che ha fatto tana nel suo inferno, grida e canta:
Drill ye tarriers, drill
Drill ye tarriers, drill
Oh, it's work all day
For the sugar in my tay.
Workin' on the U. Pay Railway![2]
Ma quando giungono i padroni, agghindati gagà yankee in abiti color kaki, allora tutto tace e si ricomincia a lavorare ai piedi di quella costruzione immane, babele che ha il suono del martello e della dinamite.
Ed è su fil di rame che stavolta corre la buona novella:
Done!
Questo il telegramma che giunge al presidente Ulysses Grant il 10 maggio 1869, un monosillabo panico che sancisce ad Ogden le "nozze dei binari" tra la Union e la Central Pacific.
Ed è in quei giorni che nei club houses di Chicago si festeggia la natura finalmente doma e che nei vaudeville di New Orleans si brinda ad una frontiera che non fa più paura, dove anche l'indiano comincia ad indossare la maschera di un circo. Intanto per le strade i bambini che giocano a hopscotch (campana) con gessetti colorati già cantano il futuro della ferrovia: "Da New York fin su la Luna e Katmandù" intonano, tra un salto e l'altro.
E cosa rimane ora di quel mito -di quel mistero- se della grande prateria si fa un giardino di provincia e del Far West l'insegna per una locanda ad ore? Buffalo Bill è una marca di liquori venduta a Washington.
Accorciando ogni distanza la ferrovia muta lo spazio, prima ancora del tempo, e pone fine al grande mito americano, che è un mito di fondazione, dunque l'epica del colono. Certo, rimangono le cattedrali di pietra, le grandi foreste, i labirinti di roccia e i fiumi dipinti dalla scuola dell'Hudson River, e di cui ora si fa cartoline in stazioni di periferia, ma all'orizzonte già appaiono i profili di città e bordelli. E quando finirà la terra si guarderà al cielo da torri di vetro.
Come l'eroe greco che rimane orfano dei suoi mostri quando tutte le chimere sono ormai vinte, così è il colono rimasto solo di tutto ciò che ha già conquistato. E all'infuori non v'è più nulla. Non l'indiano, non il bisonte, non la frontiera. L'altro adesso è lui, la razza oceanica.
Un grido si diffonde per tutta l'America:
Il grande Toro Seduto è morto
Tra le isole e i monti, il greco che sogna minotauri e chimere, immagina pure vi sia un unico principio che domina e forma ogni cosa, dal cielo alla terra fino ai suoi aquiloni di carta. Ad Efeso, regione di apocalissi e di divinità nere e materne, fu il fuoco, mentre nell'indecisa Mileto, città sospesa a metà tra cielo e mare, come il pesce rondine, l'origine di tutto fu dapprima l'acqua e poi l'aria.
E così di secolo in secolo la lista si accrebbe di elementi eterogenei e diversissimi ed alla fine del 1700 poteva vantare gli atomi, il dollaro e l'ibis; ma per l'uomo del XIX secolo era il vapore ciò da cui tutto inizia, l'archè.
Si diffonde dunque una nuova religione che alla croce preferisce la pentola a pressione, il piroscafo, il treno.
"Il vapore è il primo esempio di Dio che si sottomette all'uomo" dirà James Watt, membro della Società Lunare di Birmingham, ultimo tra i profeti.
Una lingua di fumo corre adesso per tutta l’America e annuncia con un grido aspro e acuto, ad ogni stazione, la fede nel vapore e nel progresso. È il tempo nuovo che si manifesta, come nel racconto di John Henry, Ercole nero in lotta con la macchina, in cui il treno torna ad essere quella metafora di terra e sangue, tributo da pagare sull’ara della modernità.
Per un giorno e una notte, tra Talcott e Millboro, il martello di John Henry batterà monotono sulla roccia, senza fermarsi come il moto degli astri. “Un altro colpo, un colpo ancora” -urlano gli operai della C&O Railway che fanno capannello tra un turno e l’altro per vedere Henry gonfiare il petto da titano e lasciare indietro nel Big Bend Tunnel la perforatrice del padrone.
E con l’ultimo colpo insieme alla pietra anche l’anima sarà resa, ma gli strilloni dell’Herald Tribune sulla Fifth Avenue già gridano: “John Henry ha vinto il vapore! Ha trionfato sulla macchina”.
Eppure non è questa una rivendicazione della classe operaia, bensì dell’uomo in quanto tale, dunque dell’Uomo in rivolta. “I would prefer not to”, come Bartleby -più di Bartleby- Henry è l’uomo che dice no e se è pur vero che è la trasfigurazione sul piano fisico della lotta contro il capitale, è ancor di più il segno manifesto d’una vicenda metafisica. “I say no” urla dal cuore della miniera, ma sullo sfondo della rivoluzione industriale fa già la sua comparsa l’uomo dimidiato. “Strazierai anche me come fai con le margherite o con le meduse?” sussurra l’operaio al Genius Saeculi.
Questo però è anche il tempo dell’hobo, eroe picaresco alla continua ricerca di fortuna e d’avventura attraverso l’intera America, che viaggia imbarcato da clandestino, salopette e armonica in bocca, su qualche treno merci. Ecco ciò che rimane della frontiera: tribù di saltimbanco e peripatetici, i resti ultimi di un mondo in dissolvenza.
E mentre sul notturno per Oakland risuonano gli improvvisi per jazz dell’hobo, a terra, tra i campi di granoturco e fiori di cotone, si sogna il treno che porti alla Gloria il giusto e il santo.
This train is bound for glory,
don't carry nothing, but the righteous and the holy
This train bound for glory, this train
Ma la Scala del Paradiso (Klimax tou Paredeisou) ora giace a terra e se son fatti binari per raggiungere un Mall in West Virginia.
Libertà, frontiera, industria, solitudine.
Questo lo sfondo di “Mystery Train”, lo spettacolo messo in scena dall’americanista Alessandro Portelli, Gabriele Amalfitano (chitarra e voce), Matteo Portelli (tastiera e basso) e Margherita Laterza (voce). Un viaggio nell’immaginario americano, tra musica e letteratura, in cui il treno torna ad essere quella metafora di terra e sangue, tributo da pagare sull’ara della modernità, nel racconto di John Henry, Ercole nero in lotta con la macchina.
La ferrovia non è però solo il tempo nuovo che si manifesta, quello della modernità, prima ancora è il simbolo di un nuovo spazio. Col treno ogni luogo diventa ora raggiungibile e porta con se il sogno di un’altra vita, è il tempo dell’hobo, eroe picaresco cantato, tra i molti, da Woody Guthrie (Hobo’s lullaby), alla continua ricerca di fortuna e d’avventura attraverso tutta l’America, che viaggia imbarcato da clandestino, salopette e armonica in bocca, su qualche treno merci.
E l’America portata sul palco da “Mystery Train” è soprattutto quella dei suoi cantori, da Emily Dickinson a Nathaniel Hawthorne, un paese che si decifra dunque nelle note di Utah Philipps, di Johnny Cash, Bruce Springsteen ed Elvis Preasley, senza però esaurirsi.
Ed è qui che comincia un nuovo viaggio, quello alla scoperta d’un mondo che è stato Atlantide e che la storia e l’arte, per un attimo, tornano a restituirci.