HAPPY END: "Il finale che non c'è"
Anno: 2017
Durata: 110m
Genere: Drammatico
Il film vede vivere tre generazioni, pur da diverse angolazioni e con diversi carati di sofferenza, una medesima vicenda che si decompone in tante situazioni in cui i personaggi entrano a volte in veste di protagonisti, altre volte come semplici comprimari. Ed è questa la cifra narrativa che sostiene il film: tanti quadri, tutti di splendida fattura, godibili in quanto tali anche distraendosi per un attimo dalla trama. Come quando il regista dissolve l’audio lasciando i personaggi ad esprimersi con grande efficacia comunicativa attraverso una loro muta presenza in scena. La bravura di Haneke è anche quella di aver saputo fare di questa molteplicità di momenti narrativi non un’enunciazione cumulativa ma una storia assolutamente coesa con cui il film si indirizza senza incertezze o inutili pause, verso un finale che chiama lo spettatore ad aggiungere qualcosa di suo per dare senso a quel lieto fine che il titolo ambiguamente suggerisce.
Il film prende le mosse da un originalissimo avvio formale, cui fa seguito una volutamente disordinata irruzione dei personaggi che si vanno inizialmente configurando ognuno con una propria storia, per confluire poi, forse con qualche lentezza, in un’unica vicenda.
Sono tutti membri di una ricca famiglia alle prese con inattesi avvenimenti che ne deviano il percorso da un tracciato ben definito, spingendola in una direzione in cui si disvelano i nascosti connotati dei vari personaggi e della famiglia nel suo insieme. La prima, emblematica, scena del film è un crollo che sembra voler preannunciare allo spettatore che, quanto verrà poi rappresentato, sono soprattutto macerie. Quelle di Thomas che nasconde dietro la cortina protettiva di una pur provvisoria normalità un parossistico bisogno di andare al di là. Quelle di Pierre, incapace di stare al mondo come la sua condizione sociale e familiare gli consentirebbe e quasi obbligato al gesto eccessivo in un misto di rabbia e di malinconia. Ma, in quanto a macerie, tra tutti i personaggi troneggia Georges, un Jean-Louis Trintignant che, se anche sembra tradire una certa soggezione nei confronti della sua non dimenticata interpretazione di Georges in Amour, con cui Happy End non nasconde le proprie assonanze, mette in gioco la propria maschera devastata dal tempo per reclamare un finale che il corso delle cose sembra volergli precludere.
Accanto a lui la fa da protagonista anche un personaggio entrato di soppiatto nel film ma via via impostosi come un angelo sterminatore di bunuelliana memoria: la piccola Eve, interpretato dalla brava Fantine Harduin, che non ha ancora reso inconfessabili i propri pensieri e guarda il mondo reclamandovi una presenza immune da quel dolore che lei vede ovunque intorno a sé.
E Isabelle Huppert? Questa volta la sua presenza non ha la stessa decisiva pregnanza che l’aveva resa centrale in Elle. Sembra essere stata votata da Haneke ad aggregare tra loro i diversi momenti narrativi di cui il film si compone, consentendo quella coerenza che, malgrado le divagazioni cui la regia sembra voler indulgere, fa di Happy End una storia costruita secondo i canoni ineludibili in una narrazione di meno di due ore costruita attraverso una macchina da presa.
Lo spettatore che, mentre scorrono i titoli di coda cerca di riassumere le proprie sensazioni accumulate lungo tutto l'arco del film, è sicuramente indotto a muoversi con prudenza. Happy End non è infatti un'opera che si presta ad essere ricondotta a un giudizio di sintesi e ancor meno a un voto. È un film che impegna a qualcosa di diverso. Impegna a una riflessione su alcune categorie dell'umano (il dolore, la deviazione dalla normalità, l'illusione di riuscire a farcela, e tanto altro) che Haneke getta in faccia a chi sia disposto a seguirlo nel suo accidentato viaggio di esplorazione delle zone d'ombra dell'esistenza.
Gradimento Amletico*: 6.6/10
Paese: Francia
Produzione:Les Films du Losange, X-Filme Creative Pool, Wega Film
*Media tra gradimento del pubblico, critica e autore